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Inquadramento storico

L'Età Medioevale

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Online dal: 21/12/2024

Ultimo aggiornamento: 15/01/2025

Se le conoscenze della rete idraulica della colonia romana di Julia Augusta Taurinorum consentono di confermarne l’esistenza ma non di definire caratteristiche e tracciati,  per canali e bealere della della Torino medievale è possibile delineare uno schema territoriale di massima, sebbene non una mappatura puntuale e completa, a causa della documentazione limitata e della mancanza di informazioni cartografiche.

Contenuti

  • L'eredità romana

  • Il quadro medioevale

    • Sulle fonti e sugli esiti

  • La "Bealeria Coleasca"

    • Il borgo Colleasca

    • Le Patenti e gli Statuti del 1360

  • La "Bealeria Molendinorum"

  • L'acqua in città

  • le bealere extraurbane

Julia

1. L'EREDITA' ROMANA

La colonia romana di Julia Augusta Taurinorum disponeva certamente di strutture idrauliche.  L’agricoltura irrigua e la centuriazione delle campagne dovevano avvalersi di opere di captazione, regolazione, distribuzione e smaltimento delle acque, mentre filari di alberi, rogge e strade interpoderali delimitavano le proprietà. (Cfr. L'Età Romana)  In Città, la pulizia delle abitazioni e delle strade, le terme e le fontane pubbliche e private implicavano a loro volta l’approvvigionamento idrico urbano, e forse di un acquedotto. Tuttavia, a fronte di un quadro generale piuttosto chiaro, i ritrovamenti materiali e le fonti bibliografiche non consentono di aggiungere molto alla postulata esistenza di un sistema d'acque in età romana.

Con il declino della colonia e la fine dell’Impero la rete delle acque andò perduta: le canalizzazioni si interrarono e le opere di regolazione e di controllo caddero in disuso. Le sole tracce ipotetiche della continuità tra il paesaggio romano e medievale si affidano alla conformazione del terreno e alla tendenza alla conservazione, a scala locale, dei tracciati di strade e corsi d’acqua artificiali, spesso adiacenti. Tuttavia, l’ipotesi di una continuità del quadro territoriale tra le due epoche in linea di principio è generalmente accettata. Si ritiene infatti che le distruzioni, la scomparsa dei borghi, l'arretramento delle pratiche agricole e il riaffermarsi della boscaglia, dell’incolto e delle paludi avvenuti nei secoli bui della decadenza imperiale, delle invasioni barbariche e dell’alto Medioevo compromisero, ma non cancellarono del tutto la precedente organizzazione del territorio; e che i resti di cascinali e delle ville rustiche romane, gli alvei irrigui abbandonati e le strade, furono recuperati dall’opera di riorganizzazione successiva all’anno Mille, contribuendo alla ripresa dell'economia e al ritorno di un’agricoltura razionale.

La continuità tra le due epoche è stata indagata negli anni Sessanta dalla ricerche coordinate da  Alessandro Cavallari Murat, ipotizzando che canali e bealere romani alimentati dalla Dora Riparia, con punti di presa e tracciati a noi noti, siano sopravvissuti nell’età medioevale e in quelle successive, almeno fino alla fine del secolo XIX. (1.1) La congettura pare rafforzata dal principio di inerzia del paesaggio agrario, secondo cui, una volta fissate, certe forme tendono a conservarsi anche quando vengono meno i rapporti e le condizioni tecniche, economiche e sociali che ne sono alle origini, perlomeno fino a quando nuovi e decisivi cambiamenti le sconvolgano e cancellino definitivamente. (1.2) Tale tendenza trova conferma nel caso torinese, in cui storicamente lo sviluppo umano si è intrecciato con vincoli ecologici di natura geomorfologica ed idrologica stringenti e invariati, quali il digradare del territorio da ovest verso est con dislivello regolare, attraversato da un fiume, come la Dora Riparia, favorevole alla creazione e al deflusso di derivazioni artificiali.

Tuttavia, il tentativo di verificare l'origine romana di alcune delle bealere medioevali, o se qualcuna riprendesse almeno in parte tracciati preesistenti non ha prodotto risultati soddisfacenti. (1.3) La ricerca è stata condotta sovrapponendo la maglia teorica delle centuriazioni alle carte topografiche dello Stato Maggiore dell’Esercito Piemontese del 1854 e alle moderne fotografie aeree. Il lavoro ha risentito sia delle carenze delle informazioni di base circa il reticolo idraulico delle due epoche, sia dei limiti delle tecniche e degli strumenti di indagine territoriale di quegli anni, e sarebbe interessante disporre di risultati ottenibili con i mezzi del sistema informativo geografico (GIS). Recenti studi condotti da A. Caranzano sulla continuità dell’antica centuriazione romana nei disegni del territorio dei secoli successivi hanno prodotto risultati interlocutori, ma incoraggianti. (1.4)

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(1.1) Cfr. Forma urbana ed architettura nella Torino barocca: dalle premesse classiche alle conclusioni neoclassiche, a cura di A. Cavallari Murat, Vol. I, Torino, UTET, 1968, p. 361 e segg.

(1.2) Cfr. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Ed. Laterza, Bari, 1961.

(1.3) Cfr. Forma urbana, op. cit, pp. 365-369.

(1.4) Cfr. La centuriazione di Augusta Taurinorum: “nuovi” dati dal territorio, Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino, Anno 156, n° 2-3 - dicembre 2023, pp. 9-17 e, dello stesso Autore Survey nella centuriazione di Augusta Taurinorum (Alpignano, Collegno, Druento, Pianezza, San Gillio), in “Ad Quintum – Archeologia del Nord-Ovest" n° 11 Gennaio 2022 (anno LI), pp. 52-117.

quadro medio

2. IL QUADRO MEDIOEVALE

In Europa, lo sfruttamento dell’energia idraulica si diffuse lentamente già nell’Alto Medioevo. Fin dal VI secolo, la regola di San Benedetto considerava ‘aquae et molendina’ necessari per l’autonomia dei monasteri. Anche le prime opere di regolazione delle acque sono attribuite agli ordini monastici, che dopo l'anno Mille ampliarono gli spazi di un’agricoltura fino ad allora confinata vicino alle città. La diffusione della rete idrica è conseguente all’espansione delle superfici coltivate, e soprattutto del prato  irriguo e dell’allevamento del bestiame, fenomeni peculiari della riconversione agricola europea basso medioevale suc-cessiva alla grande pestilenza della metà del Tre-cento. (2.1) Queste trasformazioni  contribuirono in modo determinate ad accrescere la produttività e la redditività agricola, a migliorare le condizioni alimentari della popolazione, e a promuovere lo sviluppo economico del XIII secolo.

La maggior parte delle canalizzazioni artificiali torinesi risale al XIV e XV secolo. Le prime testimonianze attendibili riguardano la bealera dei prati di Pianezza (1328) e la bealera di Rivoli (1340). Tuttavia, la datazione complessiva del sistema idraulico rimane incerta per le  carenze della documentazione altomedioevale. In alcuni casi, i titoli di concessione signorili sono andati perduti, o forse non sono

Cronologia 
delle bealere torinesi

Fig. 1.1 L’ordine cronologico di apertura delle bealere è solo in parte noto, sebbene la maggior parte risalga comunque ai secoli XIV e XV. Gli anni indicati in tabella sono quelli validati nel 1844 dalla Commissione Pernigotti. Alcune date potrebbero però corrispondere alla ristrutturazione di opere precedenti, in altri casi la realizzazione  potrebbe essere successiva alla concessione. L'as-terisco indica attribuzioni giuridiche diverse dalle effettive date di scavo. Al di fuori dall'area  di indagine considerata, la più antica derivazione pare la bealera di Avigliana, risalente al 1261.

Fonte: Relazione Pernigotti.

mai stati redatti, come sembrerebbe per le due maggiori canalizzazioni torinesi. Altre volte, le fonti paiono generiche o contraddittorie, per cui la stessa  concessione è stata rivendicata da doversi consorzi di gestione; oppure lasciano supporre che le nuove aperture costituissero di fatto ampliamenti di opere già esistenti. Alcune labili tracce toponomastiche permettono di ipotizzare l'esistenza di derivazioni sfuggite a ogni testimonianza. (2.2)  Anche le conoscenze sul corso storico della Dora Riparia, certamente la matrice originaria dell'intero sistema, sono limitate. Poco o nulla sappiamo di questo corso, del letto del fiume un tempo più ampio e ramificato, delle precedenti divagazioni cancellate dagli interventi umani, e ancor più dal susseguirsi di piene ed alluvioni. E forse, come è stato ipotizzato, qualcuna delle prime derivazioni proveniva proprio dai rami scomparsi del fiume. (2.3)

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Fig. 2.1 Il disegno della Dora Riparia tra Rosta e Avigliana, bench redatto nei primi anni dell'Ottocento e relativo a una parte di fiume a monte, mostra un inalveazione ben più complessa e articolata di quella a noi nota. Il tracciato del fiume e non è ancora stato rettificato, modificato e costretti nei robusti argini otto-novecenteschi, e probabilmente presenta un aspetto  non è troppo dissimile da quello medioevale torinese.

Fonte: "Saggio Idrografico del Piemonte di Giuseppe Teresio Michelotti,,.", Roma, 1803. (particolare)

La sovranità sulle acque rientrava tra le prerogative signorili, e gli scavi di nuove bealere nel contado furono concessi dal conte di Savoia Amedeo VI nel 1360, dal Principe d'Acaja nel 1410 e dal duca Ludovico nel 1454. (scheda) Le canalizzazioni comportavano cospicui investimenti. I costi per l'acquisto dei terreni, o per ottenere i permessi di attraversamento, la costruzione di traverse e opere di presa, di ponti per l'attraversamento delle strade e lo scavo di molti chilometri di alveo, talora in galleria e spesso protetto da palizzate o consolidato da murature di sostegno, erano sostenuti dai beneficiari delle irrigazioni, fossero "particolari" riuniti nelle Comunità locali, o gruppi consorziati di medi e grandi proprietari terrieri. (2.4) Tuttavia queste operazioni erano profittevoli, e la loro reddittività e il buon ritorno economico dei capitali investiti sono confermati dai consistenti aumenti registrati dai fitti dei prati e delle ore d'acqua nel corso basso medioevo. (2.5)

fonti

Sulle fonti  e sugli esiti

Le notizie sulle vicende idriche torinese nei primi due secoli dell’era volgare sono scarse. Anche la città, d'altra parte, sembra attraversare una lunga fase di stagnazione, in cui attività economiche non superano l'ambito tradizionale e locale. (2.6) Le prime menzioni relative a questioni d’acqua provengono dai cartari delle maggiori istituzioni religiose, in particolare delle abbazie, e riguardano  la compravendita o l'accensamento di opifici ad acqua, con riferimenti solo indiretti alle canalizzazioni. In genere, però tali documenti si limitano ad attestare l'esistenza degli opifici, o poco più. (Vedi I molini di Dora) I mulini da cereali e le gualchiere signorili in questa fase sembrano esaurire le attività extra agricole meccanizzate. (2.7)

La documentazione diventa più ricca e regolare a partire dal Trecento. Gli Ordinati della Credenza, ossia le verbalizzazioni dell'organo corrispondente alla Giunta e al Consiglio comunale, dal 1325 offrono notizie regolari e attendibili sulla vita economica, politica e sociale della città. Sebbene le serie siano incomplete, (2.8) questa fonte risulta cruciale per lo studio del territorio e della gestione delle acque. Parallelamente, gli atti notariliConsegnamenti di case e beni, ovvero gli estimi catastali, dal 1349 in poi forniscono preziose informazioni  topografiche ricavabili dai confini delle proprietà descritte nei documenti. Un discreto corpus di carte sciolte offre infine ulteriori elementi di analisi.

L'interpretazione delle fonti ha dovuto confrontarsi con i limiti usuali della documentazione medioevale, quali le lacune nella redazione e nella reperibilità degli atti, oltre a difficoltà di lettura e conservazione. Anche la toponomastica è stata potenzialmente di ostacolo. Molti nomi di persone e luoghi citati nei documenti, comuni e  noti a quel tempo, sono andati perduti, complicando le identificazioni. A questa problematica non è sfuggita l'attribuzione degli idronimi:  se il fenomeno ha riguardato innanzitutto le bealere secondarie e le rogge irrigue, in genere associate i modo sbrigativo ai nomi dei proprietari dei fondi, nemmeno le canalizzazioni principali ne sono state immuni.

 

Va inoltre osservato che, nonostante il ruolo economico, e la rilevanza nei riferimenti territoriali dell’immaginario della popolazione, le bealere non rientravano tra gli elementi del prestigio o  tra i simboli del potere locale. E' dunque plausibile che gli scavi e le aperture siano avvenute senza celebrazioni e cerimonie, e che i nomi siano stati assegnati loro solo in seguito, sulla base di relazioni e consuetudini consolidate. Questi nomi, spesso derivati dai finanziatori, dalle località di presa o da toponimi locali, si sono tramandati per tradizione orale con le incertezze e i fraintendimenti del caso.

Inoltre, nelle campagne medioevali (ma ancora in epoche relativamente recenti), e nei luoghi dove le relazioni erano circoscritte a spazi limitati, indicazioni troppo precise risultavano superflue: in una certa parte del contado, la "la bealera" era quella nota a tutti e non richiedeva ulteriori specificazioni. Anche negli Ordinati, il termine ricorre a volte senza nomi associati, suggerendo che si trattasse di una canalizzazione di rilievo, menzionata in modo solo apparentemente generico. (Anche se è sensazione generale che la burocrazia municipale e gli scrivani non avessero grande dimestichezza con le particolarità del territorio).

Questi ed altri limiti delle fonti hanno condizionato i risultati della ricerca. Di conseguenza, nella ricomposizione della storia delle canalizzazioni torinesi, per l'epoca medioevale è possibile delineare uno loro schema di tipo logico-territoriale attendibile,  ma non ancora una mappatura puntuale e completa dei tracciati, impresa del resto  impossibile prima dell'avvento della cartografia.

Il sistema dei canali e delle bealere non strutturava soltanto la rete irrigua delle campagne medioevali. Nelle cascine, l’acqua veniva impiegata nei lavatoi, per la pulizia delle stalle e per l’abbeverata del bestiame e le tradizionali funzioni rurali. (Ma quasi mai per uso domestico diretto). Inoltre, forniva energia agli ‘ingegni’ di comunità destinati alla macinazione dei cereali e alle lavorazioni artigianali. A Torino, i condotti artificiali interni all’abitato contribuivano alla pulizia di strade e mercati, assicurando la nettezza urbana, nonchè alla bagnatura di orti e giardini e, fuori le mura, di prati e canaperie. Una bealera era dedicata alle ruote idrauliche dei mulini e al nucleo di edifici idraulici ad ovest di porta Palazzo, polo produttivo proto-industriale della città. 

Il sistema torinese medievale delle acque si basava su due grandi canalizzazioni, derivate entrambe dalla Dora Riparia:

  • La bealeria Colleasche’, il grande e antico corso d'acqua artificiale che scorreva lungo ed a “cavallo” del terrazzamento fluviale della città, nell’area di Valdocco, con origine dalla ‘ficca Pellerine’, lo sbarramento collocato sui confini torinesi occidentali. Da essa dipendevano sia il canale della 'Portam Secusinam', la porta urbica attraverso cui parte delle acque entrava nell'abitato, alimentando la Doragrossa e i condotti urbani minori chiamati doire’, sia il  ‘Fossatum longum’, che costeggiando le mura cittadine meridionali scendeva fino al Po. A queste canalizzazioni faceva capo una fitta rete di rogge e fossi che irrigavano le campagne estese dal Valentino verso S. Salvario e la Crocetta.

  • La ‘bealerìa Molendinorum’, una seconda canalizzazione, indipendente parallela, che faceva girare le ruote idrauliche e le macine dei molini da grano e degli opifici situati fuori della porta Palazzo, o porta Palatina. Derivata parecchio più a valle, nell’area di piazza Baldissera e del Fortino, attraverso la 'ficca molendinorum', scorreva prossima alla Dora, forse lungo un tracciato ottenuto per adeguamento e rettifica di antiche divagazioni secondarie del fiume, terminando nel fiume stesso o nei prati di Vanchiglia.

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Fig. 3.1 Schema di massima tracciati delle due maggiori canalizzazioni torinesi. (Provvisorio).

Lo sfruttamento delle acque si estendeva al Po, seppure in maniera più limitata a causa della maggiore distanza dalla città. I molini di Sassi, di proprietà dei canonici del Duomo, sono attestati fin dal 1047 e, sempre in epoca medioevale, si hanno notizie di un mulino degli Zucca e di un "batenderium Cabureti" operanti entrambi sul fiume. Almeno dal 1115, il monastero di San Solutore beneficiava per concessione vescovile dei diritti di pesca e della facoltà di costruire mulini sul Po da Testona alla confluenza con la Stura. (2.9) Questi impianti, tuttavia, non provvedevano tanto alla produzione delle farine per la città, quanto al sostentamento degli insediamenti sulla sponda destra del fiume, i quali, pur situati nel territorio torinese, di fatto in godevano di autonomia e vita propria. I mulini fluviali erano di tipo ‘natante’, cioè galleggianti e montati su pontoni: soluzione dovuta, sia alle caratteristiche del fiume, poco favorevoli alla derivazione di canalizzazioni artificiali, sia  per non interferire con la navigazione.

A questo proposito, per quanto molti ritengano, e risulti plausibile, che sin dall’alto medioevo in due il Po fosse rilavante per la navigazione commerciale, A. Settia ha osservato che il fenomeno non ha lasciato tracce evidenti negli archivi. Anche gli accenni trecenteschi a “porti” e “naves” lasciano intendere che fossero riferiti a di semplici traghetti, piuttosto che a veri approdi mercantili. (2.10) I traghetti erano diffusi su tutti i fiumi. Assai numerose sono le menzioni di quelli di San Vito sul Po e di San Giacomo di Stura, oltre ovviamente a quelli presenti sulla Dora. Nonostante la Stura e il Sangone fossero spesso indicati nella definizione dei confini delle proprietà, i rapporti che la città intratteneva con i due fiumi erano limitati.

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(2.1) Per quanto nel Torinese il fenomeno non sia facilmente quantificabile, esso riguardò soprattutto l’allevamento ovino, a fronte di una presenza bovina relativamente scarsa. Il consumo di carne di montone venduta nelle macellerie non era dovuto solo alla comunità locale, ma anche alle strutture di ospitalità ed accoglienza rivolte ai molti in viaggio lungo la strada di Francia. Una parte significativa dei capi era inoltre esportata. Cfr: Rinaldo Comba, L'economia, in R. Comba (a cura di), Storia di Torino, Vol. II "Il basso Medioevo e la prima età moderna (1280-1536)", Torino, Einaudi, 1997, pag. 122-124 e Alessandro Barbero, Un’oligarchia urbana. Politica ed economia a Torino fra Tre e Quattrocento, Viella Ed. Roma 1995, pp. 95-98.

(2.) Si vedano la citazione e "una bealera di Druento che si estrae dalla Stura per mezzo di antico canale denominato la Roja, ossia bealera di Torino, per  uso ed utilità della Città", menzionata nelle Patenti del duca Ludovico del 24 aprile 1454, che non trovano conferma e corrispondenza nella topografia consolidata delle delle canalizzazioni torinesi. E anche una ' bealera Chuselllis" citata nella mostra "Territorio e insediamento in periodo romano. Invito ad un percorso storico nella 5a Circoscrizione, curata dal Centro di Documentazione Storica di Lucento. Essa sembra provenire dal territorio di Collegno, confluendo nella dora nella valle di Lucento. La zona di Chusellos, (anche Zehirolos, o Jussellos) è attestata nell'Oltredora, nella regione delle Vallette, sul confine tra Lucento e Collegno.

(2.3)  Cfr. Vittorio Marchis, Acque, mulini e lavoro a Torino, in "Acque, ruote e mulini a Torino", a cura di Giuseppe Bracco, Torino,  Archivio storico della Citta di Torino, 1988. pag. 10.

La prima Patente imperiale documentata è  quella di Enrico V, del 1116. Cfr. ASCT, CS 1 e CS 2212 cart. 129.

(2.4) Si veda in proposito il consorzio costituito verso il 1382 per lo scavo della bealera nuova di Vanchiglia, a cui parteciparono vari membri dei Borgesio, un della Rovere e il notaio Tommaso de Pertusio, o dal ruolo dei Beccuti e degli Scaravelli nello scavo delle bealere di Lucento. Cfr. R. Comba, L'economia, cit. e A. Barbero, Un’oligarchia urbana, cit.

(2.5) Nel 1325 il fitto annuo di sei ore settimanali d’acqua della bealera Colleasca ammontava a 4 grossi tornesi, mentre nel 1332 il fitto dello stesso tratto per un giorno alla settimana costava 6 grossi. Il reddito ottenuto da Ludovico d’Acaia per l’affitto delle 50 giornate di prato passò infatti da 1 fiorino e 5 grossi nel 1418 a 3 fiorini e 4 grossi nel 1420. Cfr. R. Comba, L'economia, cit. e A. Barbero, Un’oligarchia urbana, cit. Sull'argomento si veda anche Claudio Rotelli, Una campagna medievale. Storia agraria del Piemonte fra il 1250 e il 1450, Einaudi, Torino 1973.

(2.6) Per un dettagliato quadro della situazione economica torinese del Duecento, cfr. R. Bordone, Vita economica del Duecento, in G. Sergi (a cura di), Storia di Torino, Vol. I "Dalla preistoria al comune medioevale", Torino, Einaudi, 1997, pag. 751 e segg.

(2.7) Le gualchiere, con la battitura meccanica dei panni-lana da cui si ottenevano feltri compatti ed impermeabili, effettuavano la piccola parte di un ciclo produttivo basato essenzialmente sul lavoro a domicilio. Le produzioni tessile laniere costituivano la principale attività produttiva extra agricola della città.

(2.8) I "Libri consiliorum", ossia i verbali Ordinati della Città di Torino, dal 1325 al 1392 sono stati trascritti e pubblicati dall’Archivio Storico della Città di Torino. Tuttavia la serie degli undici volumi è incompleta, poiché 27 annate sono andate perdute e pertanto sono effettivamente disponibili i seguenti anni:

- Libri Consiliorum, I, 1325-1329

- Libri Consiliorum, II, 1333-1339

- Libri Consiliorum, III, 1342-1349

- Libri Consiliorum, IV, 1351-1353

- Libri Consiliorum, V, 1365-1369

- Libri Consiliorum, VI, 1372-1373

- Libri Consiliorum, VII, 1376-1379

- Libri Consiliorum, VIII, 1380-1383

- Libri Consiliorum, IX, 1384-13865

- Libri Consiliorum, X, 1387-1389

- Libri Consiliorum, XI, 1390-1392

(2.9) Cfr. Aldo A. Settia, Fisionomia urbanistica e inserimento nel territorio (secoli XI-XIII), in Giuseppe Sergi (a cura di), Storia di Torino, Vol. I, Torino, Einaudi, 1997, pagg. 814.

(2.10) Idem.

3. La "Bealeria Colleasche"

L'origine incerta

L’origine della bealera Colleasca risale a un periodo e a circostanze di cui non si conservano testimonianze scritte. Tuttavia è accertato che fin dai primi secoli del secondo millennio un canale convogliava le acque della Dora verso l’abitato e il contado circostante, attraversando il territorio ad ovest di Torino noto come Colleasca.

Il controllo delle acque rientrava tra le prerogative signorili. Tuttavia, la Città ha sempre rivendicato la sovranità sulle proprie acque, in virtù di libertà e privilegi imperiali concessi da Enrico IV nel 1111, confermati dal figlio Enrico V nel 1116 e da Lotario III nel 1136. (3.1) Se la bealera risalisse all'epoca comunale, la mancanza di titoli di derivazione potrebbe essere spiegata, in quanto l'autonomia cittadina non li avrebbe richiesti. I diritti d'acqua della Città furono confermati definitivamente nel 1360 dalle Patenti del conte Amedeo VI di Savoia del 24 marzo, in un periodo però in cui la bealera certamente già esisteva e la rete idraulica era ormai definita. Queste prerogative furono ribadite più volte nei secoli successivi dai duchi di Savoia, i quali, in diverse occasioni, posero il canale sotto la loro tutela per proteggerlo da abusi e prelievi indebiti d'acqua. ((3.?) (citare raccolte?)

In ogni caso, per l'Amministrazione civica, la convinzione della antichissima origine della bealera ha giustificato la mancanza di una specifica documentazione. Tale convinzione, ancor prima che sui documenti, si basava sull' evidenza che “non è già da credersi che il territorio si sempre stato incolto e non vi fossero bealere per irrigarlo, fin dal lungo tempo prima della citata Adelaide di Susa”.  (Metà del XII secolo) (3.2) Emblematiche, a questo proposito, sono le parole di un memoriale seicentesco: La Città, Cittadini, e particolari essere in antichissimo, ed immemorial uso, e il giusto, e pacifico possesso di tutte le acque, talmente che non v’è memoria d'uomo, né di scritture in contrario, e si può probabilmente dire, ed assicurare, che tale uso, e possesso abbia avuto principio con la medesima Città, e Particolari suddetti, e poiché non si trova, che mai dette acque siano state d’altri, che della città, e particolari suddetti; il che quando eziandio non vi fosse altro, a forza il giusto titolo, e causa(3.3)

Sul borgo Colleasca

Colleasca era il nome attribuito al vasto territorio che da Torino si estendeva verso Collegno, definito a nord dalla Dora e a sud dalla principale via di Francia detta "dei pellegrini e dei mercanti", la via Romea. L’indicazione “per viam Coleascham quam itur Collegium” attestava l'uso del toponimo alla strada che collegava i due centri, alla porta di Collegno rivolta verso Torino attraversata dalla strada stessa e alla bealera che ne seguiva in parte il tracciato. Infine, il borgo extraurbano, addossato alle mura cittadine alla destra della Porta Segusina, prendeva anch'esso il nome di Colleasca. (3.4)

Le origini del borgo sono strettamente legate all'abbazia benedettina di San Solutore, fondata dal vescovo Gezone tra il X e l'XI secolo sulle rovine di una precedente chiesa dedicata ai santi martiri torinesi Solutore, Avventore e Ottavio, protettori della città, che raggiunse la dignità abbaziale alla fine del XIII secolo. Situato “foris et prope muros civitatis”, in prossimità dell’angolo sudoccidentale delle mura, nell’area che in seguito ospitò il mastio della cittadella, il centro religioso si affermò presto come un potente proprietario terriero. Le prime attestazioni del borgo detto "della Colleasca" risalgono al XII secolo, quando, in seguito alle cessioni dei terreni abbaziali, iniziarono a sorgere edifici e sedimi attorno alla chiesa di San Donato, situata a sua volta nei pressi del monastero. (3.5)

ll “burgus Sancti Donati” era anche noto come “burgus Coleasche” e ,talvolta, come “suburbius porte Secusine” o “burgus Taurini”, a seconda degli elementi territoriali presi come riferimento. In altri casi, veniva semplicemente chiamato “burgo”, sottintendendo che si trattasse del borgo cittadino più importante, il borgo per antonomasia. (3.6)  L'esistenza di un unico “burgus Sancti Donati et Colleassche” trova riscontro anche dagli Ordinati. (3.7) Tuttavia, non si può escludere che il doppio appellativo possa derivare dalla fusione di due nuclei abitati contigui, in origine indipendenti, dando forma a un singolo suburbio di maggiori dimensioni.

Secondo Giovanni Donna D’Olderico, in una nota introduttiva all’opuscolo che L. Cibrario nel 1836 ha dedicato agli ospedali torinesi del XIV secolo, in origine il borgo era chiamato di S. Bernardo, in riferimento al Priorato e alla casa ospitaliera, istituzioni dipendenti dell’Ospizio del Gran San Bernardo, fondato da San Bernardo di Mentone, località situata sul lago di Annecy, in Alta Savoia. In seguito, sarebbe la denominazione di borgo San Donato sarebbe prevalsa in virtù della buona fama della Confraternita di San Donato, titolare di numerose proprietà nell’area e dedita all’assistenza ai poveri e agli ammalati. (3.8)

Altre notizie sull'insediamento si devono al Cibrario stesso, secondo cui:

“... volgendo a mezzodì, e seguitando il corso delle mura a ponente, incontravasi a diritta della strada di Rivoli il borgo di S. Donato e di Colleasca, che protendevasi verso il Martinetto, ed era formato d’una sola strada che chiudevasi con una porta. Eranvi in quel borgo la chiesa di San Donato, la chiesa e lo spedale di di San Cristoforo dell’ordine degli Umiliati, la chiesa San Bernardo di Mentone, soggetta al preposto di Montegiove, (Gran S. Bernardo). In quel borgo si tennero alcun tempo le donne mondane.” (3.9)

3.2 Luigi Cibrario, nella sua ipotetica ricostruzione ottocentesca  della Torino del 1335, colloca il borgo di S. Donato e Colleasca fuori la porta Segusina, “a diritta della strada di Rivoli", orientato quindi in direzione della Dora. Questo suburbio, che ospitava le principali  chiese e i conventi, extraurbani occidentali, sarebbe oggi collocabile approssimativamente nell'area, delimita-ta dai corsi Palestro e Regina Margherita e dalle vie della Consolata e Garibaldi. L'autore non definisce con precisione i confini del borgo, limitandosi a osservare che è  "formato d’una sola strada che chiudevasi con una porta". È importante sottolineare che sia la ricostruzione di Cibrario che quella di Bagetti (fig. 3.3) sono rappresentazioni ipotetiche, basate su una minuziosa analisi di fonti archivistiche ma prive di un fondamento cartografico diretto. Questi disegni, pertanto, offrono una visione d'insieme indicativa piuttosto che una rappresentazione accurata della realtà storica. Tuttavia,  esso Si noti che il Cibrario propone un perimetro urbano ridotto rispetto a  quello di epoca roma-na. Occorre però  sottolineare il disegno, come quello del Bagetti riportato in fig. 3.3, non si basa su ritrovamenti materiali o su mappature dell’epoca, ma sulla paziente e meticolosa ricomposizione di frammenti d’archivio. Pertanto è importante osservare che tali lavori sono soggetti a errori e imprecisioni e hanno un valore topografico soltanto indicativo. Il Cibrario ipotizza un ampliamento verso ponente delle mura cittadine avvenuto prima dell'anno Mille, suggestione che non trova riscontro in altre fonti storiche.

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3.2 Luigi Cibrario, nella sua ipotetica ricostruzione ottocentesca  della Torino del 1335, colloca il borgo di S. Donato e Colleasca fuori la porta Segusina, “a diritta della strada di Rivoli", orientato quindi in direzione della Dora. Questo suburbio, che ospitava le principali  chiese e i conventi, extraurbani occidentali, sarebbe oggi collocabile approssimativamente nell'area, delimita-ta dai corsi Palestro e Regina Margherita e dalle vie della Consolata e Garibaldi. L'autore non definisce con precisione i confini del borgo, limitandosi a osservare che è  "formato d’una sola strada che chiudevasi con una porta". È importante sottolineare che sia la ricostruzione di Cibrario che quella di Bagetti (fig. 3.3) sono rappresentazioni ipotetiche, basate su una minuziosa analisi di fonti archivistiche ma prive di un fondamento cartografico diretto. Questi disegni, pertanto, offrono una visione d'insieme indicativa piuttosto che una rappresentazione accurata della realtà storica. Tuttavia,  esso Si noti che il Cibrario propone un perimetro urbano ridotto rispetto a  quello di epoca roma-na. Occorre però  sottolineare il disegno, come quello del Bagetti riportato in fig. 3.3, non si basa su ritrovamenti materiali o su mappature dell’epoca, ma sulla paziente e meticolosa ricomposizione di frammenti d’archivio. Pertanto è importante osservare che tali lavori sono soggetti a errori e imprecisioni e hanno un valore topografico soltanto indicativo. Il Cibrario ipotizza un ampliamento verso ponente delle mura cittadine avvenuto prima dell'anno Mille, suggestione che non trova riscontro in altre fonti storiche.

La formazione e la posizione del borgo Colleasca erano strettamente legate ai movimenti di viaggiatori e merci lungo la via Francigena. Verso la porta Segusina convergevano infatti le strade provenienti dalla valle di Susa: sia quelle che percorrevano la sponda destra della Dora, toccando alternativamente Rivoli, Collegno, Grugliasco o Beinasco, sia quelle che seguivano la sponda sinistra, passando per Pianezza e attraversando il fiume in qualche punto. (Cfr. Guadi  sulla Dora)

L’insediamento presentava la fisionomia delle formazioni extraurbane, caratterizzate da qualche edificio ruale ("tecta", "domuncule", "airali"...) e orti. Soprattutto, ospitava numerose attività laiche e istituzioni religiose che prestavano assistenza ai viaggiatori, in particolare gli ospedali. Questi ultimi erano istituzioni di cruciale importanza, spesso dotate di consistenti patrimoni che consentivano di svolgere funzioni di ordine sociale e religioso ben più ampie di quelle strettamente sanitarie. Oltre a curare i malati e i bisognosi con rimedi naturali e preghiere, accoglievano i pellegrini offrendo cibo, alloggio e assistenza spirituale. Inoltre, fornivano aiuto e protezione a orfani, vedove, poveri, disabili ed emarginati, attendendo così anche a funzioni caritative. (3.10)

Le attività laiche comprendevano locande, osterie, stallaggi, botteghe, magazzini, depositi di vario genere e servizi artigianali rivolti ai mercanti e al trasporto delle merci, come quelli forniti da fabbri e carradori. Il borgo surrogava, forse per scelta politica più o meno consapevole della amministrazione cittadina, la carenza di strutture di accoglienza all’interno della città murata, anche per tenere lontano dall’abitato esercizi e persone potenzialmente fonte di disturbo alla pubblica quiete. (3.11)

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3.3 Un'altra mappatura ottocentesca del borgo di S. Donato, riportata al 1416, è dovuta a Pietro Bagetti. La planimetria proposta differisce da quella del Cibrario, alla quale sono aggiunge le chiese di S. Augustino e di S. Rolandino, il convento di S. Valeriano e l'oratorio di S. Nicola, omettendo invece la chiesa di S. Donato. I principali edifici religiosi del borgo, definito genericamente "faubourg de la porte Susine", sono distribuiti lungo le strade di Rivoli e di Collegno, forse ipotizzando implicitamente l'esistenza di due nuclei distinti. Proiettando il disegno sull'attuale mappa stradale della città, l' l'insediamento risulta leggermente spostato ad ovest, nello spazio che da c.so Palestro si estende verso piazza. Statuto. Anche in questo caso la mappatura ipotizzata ha valore perlopiù indicativo.

In mancanza di informazioni più precise, non è possibile definire i confini e l’estensione del borgo, che le ricostruzioni cartografiche della Torino medievale di L. Cibrario e P. Bagetti collocano comunque in prossimità della porta Segusina. (fig. 3.2 e 3.3)

Il borgo medievale di S. Donato era dunque attraversato da una singola strada e chiuso da una sola porta rivolta ad ovest, verso Pozzo Strada. (3.12) Un tale assetto suggerisce la presenza di una qualche forma di fortificazione, ma solleva anche alcune perplessità, a causa degli ingorghi, facilmente immaginabili, prodotti dal transito di persone, carri e animali costretti a passare dallo stesso varco in direzioni opposte; soprattutto considerando che l'apertura di un secondo accesso non avrebbe comportato particolari difficoltà. La mancanza di una porta rivolta verso la città potrebbe trovare una spiegazione se il suburbio fosse stato circondato da un fossato, collegato senza soluzione di continuità con quello scavato ai piedi delle mura cittadine. L'esistenza del fosso è testimoniata sia da un atto notarile del 19 dicembre 1218, in cui è citato "un campo situato vicino al fossato della città di Torino, che confina il fossato del borgo e la via di Sant'Andrea", (3.13) sia  dal rogito di cessione della metà di una casa e di un terreno confinanti “col fossato di Borgo San Donato”, effettuata dall’Abate di San Solutore nel 1223. (3.14) Anche la partecipazione del monastero alle spese per lo scavo delle nuove linee di difesa perimetrali torinesi sembra avvalorare questa ipotesi. (3.15) La continuità delle opere di fortificazione e l’inclusione in un sistema difensivo unitario potrebbero anche spiegare perchè la “porta Colleasca” sia stata talvolta erroneamente annoverata tra le porte urbiche torinesi medievali.

L’edificazione della porta “per la custodia del borgo” venne deliberata il 23 novembre 1333 da quattro 'sapientes', dal giudice e dal vicario della città, nell’ambito di vari interventi finalizzati al rafforzamento delle opere di difesa. L’intervento potrebbe essere stato concepito per sostituire un ponte o ricostruire un accesso preesistente, oppure in occasione dello scavo ex-novo del fossato che circondava il suburbio. (3.16)

Se accettiamo l'ipotesi che il borgo avesse un unico varco rivolto verso Pozzo Strada e l’ospedale del Santo Sepolcro, andrebbe riconsiderata la posizione del bivio che separava le strade di Rivoli e Collegno. Invece di trovarsi a ridosso della porta Segusina, come suggeriscono le ricostruzioni storiche, il bivio dovrebbe essere collocato al di fuori della porta del borgo stesso, e corrispondere così alle “furcas de Puteo Strate”, da cui si diramavano la “via Colleasca” e la “via Romeria”. Tale configurazione risulterebbe, peraltro, coerente con la natura commerciale, ospedaliera e di transito dell’insediamento.

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3.4 (Sopra) Posizione degli edifici di S. Cristoforo in epoca medie-vale. Il  convento risultava situato all'incrocio di via S. Domenico e c.so Valdoc-co, mentre la chiesa e l'ospedale si trovavano sul-l'asse di via S. Domenico, nel perimetro delimitato dalle vie Bligny, S. Chiara, della Consolata e del Car-mine. La proiezione è stata ottenuta sovrapponendo il disegno dei beni dei frati Umilati e Agostiniani all'o-dierna mappa stradale di Torino.

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Fig. 3.5 (Sopra) Il disegno mostra le proprietà dei frati Agostiniani fuori la porta Susina. Pur redatto da Antonio Bertola nel 1708, esso mostra l'assetto dell'area e le proprietà dell'ordine degli Umiliati attorno al XV secolo. Questi beni passarono agli Eremitani di Sant'Agostino, e in parte alle monache si S. Chiara, dopo l'allontanamento degli Umiliati da Torino, avvenuto nel 1446. Tutti gli edifici di S. Cristoforo, come l'intero borgo di S. Donato e Colleasca, furono abbattuti dai francesi dopo il 1536, nel contesto del potenziamento delle fortificazioni cittadine. Il tipo, oltre agli edifici di S. Cristoforo, mette in evidenza anche l'alveo della bealera Colleasca, le strade di Collegno e Rivoli e la porta urbica occidentale e le linea della cinta muraria medievale.

Fonte: AST, Sez. Riunite, (particolare)

(cliccare sull'immagine per andare all'originale).

L’immagine del borgo di S. Donato e Colleasca che emerge evidenzia le strette relazioni spaziali e funzionali con la città. L'integrazione risultava non limitata esclusivamente alla sfera di assistenza del traffico dei pellegrini e alle attività commerciali, ma estesa ad aspetti strategico-militari, qualificando l'abitato come un’estensione organica e un vero e proprio prolungamento funzionale della Torino medievale.

Il borgo di S. Donato e Colleasca scomparve dopo il 1536, quando i Francesi, impegnati nel rafforzamento delle fortificazioni cittadine, decisero di abbattere tutte le strutture e gli insediamenti che potevano ostacolare la difesa della città, tra cui il borgo stesso e tutti i suoi edifici.

il luogo di origine

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Molto della bealera Colleasca rimane sconosciuto. Non disponiamo di informazioni su caratteristiche come dimensioni e portata, che verosimilmente erano modeste, considerante le limitate capacità di derivazione idraulica dell'epoca, e anche il luogo di presa e il tracciato non possono essere definiti con certezza, almeno prima dell’inizio del XIV secolo.

Le ipotesi sulla collocazione dell'imbocco sono condizionate dalla morfologia del fiume e del territorio. La presa, infatti, doveva trovarsi almeno un miglio a monte della città, in un punto sufficientemente elevato da permettere alle acque della Dora di superare il dislivello tra il letto del fiume e il pianalto su cui sorge Torino.

Pur considerando le conoscenze incomplete sul corso storico della Dora e gli effetti delle modifiche d’alveo naturali e umane succedutesi nel tempo, è verosimile supporre che la bealera avesse inizio nell’area che dall’attuale parco della Pellerina si estende verso Collegno, rimanendo però all’interno dei confini torinesi. Per ragioni di sicurezza e di controllo sulle opere di presa e sul regolare flusso delle acque, è infatti improbabile che la canalizzazione avesse origine in un altro comune, in particolare a Collegno. (3.17)

I punti più plausibili sono le due anse disegnate in questa zona dal fiume, che grazie alla loro conformazione avrebbero facilitato l’ingresso delle acque nel canale, rispetto alla derivazione in un tratto rettilineo del fiume; soprattutto in un’epoca sconosciuta e sicuramente molto lontana. Il luogo più probabile è l’ansa formata dalla Dora al termine di corso Appio Claudio, dove ancor oggi sussiste la traversa dell’ex canale della Pellerina. Il secondo è situato più a monte, all’estremo margine occidentale di Torino, nei pressi delle cascine Mineur e Cascinotto, dove la strada della Pellerina piega bruscamente verso sinistra, in direzione del campo di volo di Collegno. Per le ragioni di sicurezza già accennate, è improbabile che l'origine si trovasse ancora più a monte, nell'ansa della odierna cascina Ferraris.

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(3.1) La prima Patente imperiale documentata è quella di Enrico V, del 1116. Cfr. ASCT, CS 1 e CS 2212 cart. 129.

(3.2) Cfr. ASCT, CS 1854. Va sottolineato come simili argomentazioni siano tipiche dei contenziosi legali, dove si difendono interessi specifici e la veridicità storica può essere messa in discussione. Tuttavia, queste affermazioni dimostrano la profonda convinzione della Città sui propri diritti d'acqua, radicati in un passato remoto. Benché privi di prove documentali formali e di approfondite ricerche storiche, questi diritti furono considerati legittimi nel corso del tempo, al punto che, nel 1839, durante i lavori preliminari della Commissione Pernigotti l'osservazione, identica a quella già citata, che “si ha fondato argomento per credere che l’origine sia remotissima e di molto anteriore all’epoca che la Città di Torino fosse compresa nei domini dei Conti di Savoia” bastò a riconoscere i diritti della Città sull'antica canalizzazione.

Cfr. AST Sez. Riunite, Camera dei Conti, Piemonte, Feudalità, Articolo 766-Atti di visita e titoli riguardanti acque, bealere, mulini e canali, Paragrafo 2-Titoli riguardanti le derivazioni d'acqua dalla Dora, MAZZO 2. - 1840. R. Commissione creata colle R. Patenti 6 agosto 1839 – Minuta di relazione relativa ai diritti della Città e Particolari di Torino sulle acque del fiume Dora.

(3.3) ASCT, CS 1972.

(3.4) Già all'inizio del XII secolo iniziano le attestazioni di sedimi ed edifici fuori della Porta Segusina, attorno alla chiesa suburbana di San Donato; ma bisogna attendere una trentina d’anni per veder comparire il termine borgo. Cfr. Maria Teresa Bonardi, Canali e macchine idrauliche nel paesaggio suburbano, in "Acque, ruote e mulini a Torino", Vol 1, cit. pag. 108. La prima menzione specifica «in burgo Sancti Donati», è un contratto del 1171, con cui una piccola pezza di terra «iusta domo ecclesie Sancti Donati» è data in censo dall’abate Niccolò; sempre in questa parte della città, nel 1196, l’abate Gualfredo accenserà una pezza di terra con casa, cortile e pertinenze. Ancora nel XIII secolo, Borgo San Donato sarà spesso menzionato in contratti di accensamento e di vendita: ora si tratta di una pezza di terra vuota, ora di una casa comperata dall’abate nel 1222, ora di un’altra casa, confinante col fossato del comune torinese, e divenuta allodio dell’abbazia in seguito all’acquisto fatto dall’abate Pietro. Sempre allo stesso abate veniva ceduta nel 1223 ogni ragione su metà di una casa con pertinenze confinante col fossato di Borgo San Donato. Cfr. Patrizia Cancian, L’abbazia torinese di S. Solutore: origini, rapporti, sviluppi patrimoniali, in: "Bollettino storico-bibliografico subalpino", CIII (2005), pp. 325-400. Nel 1182 si ha notizia di una pezza di terra con casa situate "in via Colleasca". Cfr. cfr. R. Bordone, Vita economica del Duecento, op. cit. p. 754.

(3.5) La chiesa di S. Donato compare in un elenco dei beni del monastero di S. Solutore del 1118 e in un contratto di cessione in enfiteusi relativo un sedime con edificio e cortile situato non lontano dalla chiesa di S. Donato siglato dall'abate del monastero nel 1126. Cfr. Patrizia Cancian, L’abbazia torinese di S. Solutore: origini, rapporti, sviluppi patrimoniali,  op. cit.

(3.6) Cfr. Cfr. Maria Teresa Bonardi, Canali e macchine idrauliche nel paesaggio suburbano, opcit. pag. 118 e, della stessa Autrice, Dai catasti al tessuto urbano, in "Torino fra Medioevo e Rinascimento: dai catasti al paesaggio urbano e rurale", a cura di Rinaldo Comba e Rosanna Roccia,  ASCT, Torino, 1993, p. 84.

(3.7) Cfr. ASCT, Libri Consiliorum, vol. II, pp. 99 e 193.

(3.8) Cfr. Giovanni Donna D’Olderico, Nota introduttiva all’opuscolo di L. Cibrario dedicato agli Ospedali di Torino nel XIV secolo del 1836, ristampato nel 1963 negli "Annali dell’Ospedale Maria Vittoria di Torino e della Società Storica delle valli di Lanzo", p.11 – Va osservato che, per quanto le fonti analizzate paiano attendibili, l’interpretazione che l'autore ne dà suscita talora qualche perplessità.

(3.9) Cfr. Luigi Cibrario, Storia di Torino, vol. II, A. Fontana Editore, Torino, 1846, p. 24. Il borgo ospitava forse anche le chiese suburbane di San Pancrazio, Sant’Augustino, di San Francesco (poi Santa Chiara) e l’oratorio di San Nicola, poste comunque fuori la porta Segusina. Cfr. A. Settia, op. cit. p. 812. Nel borgo a ridosso della porta urbica occidentale F. Pingone menziona anche la presenza del cenobio di San Rolandino e "il tempio del Sepolcro di Gerusalemme, abitato da coloro che portavano come insegna la croce rossa", quest'ultimo situato però a Pozzo Strada, ad una maggiore distanza da Torino. Cfr. Filiberto Pingone, Augusta Taurinorum, 1577, p. 

(3.10) L'ospedale di San Cristoforo, ad esempio, possedeva 265 giornate di terra, oltre a varie vigne, a sei case, ad alcuni airali ed al diritto di riscossione dei canoni di affitto in natura (quali vino, grano e segala) dei beni situati nel territorio di Torino e di Collegno. Delle 265 giornate, ben 93 si trovavano nella regione Colleasca. Cfr. Luigi Cibrario, Gli Ospedali di Torino nel XIV secolo, nota introduttiva di Giovanni Dona D'Olderico, Ristampa dell'edizione del 1836 a cura degli "Annali dell'Ospedale Maria Vittoria di Torino e della società Storica delle Valli di Lanzo", 1963, p. 9.

(3.11) Nel Trecento, infatti, i Consegnamenti catastali non registrano alberghi veri e propri all'interno di Torino, ma soltanto la disponibilità di pochi letti, denunciati da qualche contribuente. Cfr. R. Bordone, Vita economica del Duecento, op. cit. p. 764. E' curioso notare che negli Statuti di Torino del 1360 è vietato alle "meretrici", ossia alle "donne mondane" citate dal Cibrario, di esercitare nel borgo. Tuttavia nel 1412 il Comune decide di dedicare una casa "ad postribulum" in relazione alla venuta degli studenti per la creazione dell'Università. Cfr. R. Comba, Apetitus libidinis coherceatur. Strutture demografiche, reati sessuali e disciplina dei comportamenti nel Piemonte tardomedievale, in «Studi Storici», XXVII (1986), pp. 568 segg.

(3.12) Per quest'ultima affermazione, cfr. Maria Teresa Bonardi, Canali e macchine idrauliche nel paesaggio suburbano, cit.,p. 119.

(3.13) Cfr. Francesco Cognasso, Documenti inediti e sparsi sulla storia de Torino, Tip. Baravalle e Falconieri, 1912, Pinerolo, p. 86.

(3.14) Cfr. Patrizia Cancian, L’abbazia torinese di S. Solutore, cit. p. 39.

(3.15) Cfr. Aldo A. Settia, Fisionomia urbanistica e inserimento nel territorio, cit.p. 789.

(3.16) Cfr. ASCT, Libri Consiliorum, vol. II, pp. 93.

(3.17) Sotto questa condizione, la realizzazione della presa della bealera sotto la rocca del castello di Collegno sembra possibile solo dopo il 1262, anno in cui il Comune di Torino riscattò il castello e il luogo di Collegno dagli eredi di Aimerico de Crusinaldo. Cfr. Soggetti e problemi di storia della zona nord-ovest di Torino fino al 1796: Lucento e Madonna di Campagna, a cura del Laboratorio di ricerca storica sulla periferia urbana della zona Nord-Ovest di Torino, Università degli studi di Torino - Facoltà di Scienze della formazione, Torino 1997, p. 33 e segg.

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