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Inquadramento storico

L'Età Romana

Online dal: 03/03/2023

«Chi vorrà considerare con attenzione la quantità delle acque di uso pubblico per le terme, le piscine, le fontane, le case, i giardini suburbani, le ville; la distanza da cui l'acqua viene, i condotti che sono stati costruiti, i monti che sono stati perforati, le valli che sono state superate, dovrà riconoscere che nulla in tutto il mondo è mai esistito di più meraviglioso».

(Plinio il Vecchio, "Naturalis Historia")  

Inquadramento storico

  • L'età romana

  • Il Medioevo e

       il Cinquecento

  • Il Seicento

  • Il Settecento

  • l'Ottocento

  • Il Novecento

«Mi sembra che la grandezza dell'impero romano si riveli mirabilmente in tre cose: gli acquedotti, le strade e le fognature».

(Dionigi di Alicarnasso)  

Fin dall'antichità l'utilizzo e il controllo delle acque hanno avuto un ruolo essenziale nella civilizzazione e nella fondazione delle città. Canali, acquedotti, cisterne e altre grandi opere idrauliche rientrano tra le maggiori vestigia del passato giunte fino a noi. (1) Gli antichi romani, in particolare, erano noti per la loro abilità nel costruire complessi sistemi di approvvigionamento idrico che permettevano di trasportare acqua da fonti remote fino alle città.

Molto poco sappiamo di modalità, forme e strutture dello sfruttamento delle acque nell'area torinese nel periodo preromano. A. Cavallari Murat ha dedotto l’esistenza di opere di canalizzazione già in tempi antichi attraverso i conflitti d’acqua che opponevano Lebici e Salassi; la centuriazione romana avrebbe riadattato forme di irrigazione e di derivazione già esistenti; i Taurini stessi avrebbero mediato dai Galli le tecniche per portare l’acqua nei prati, (2) anche se le forme della loro agricoltura, descritte da Plinio il Vecchio, ad alcuni paiono troppo semplici per confortare tale ipotesi.

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(1) Un'ampia descrizione di opere idrauliche romane, e non solo, è contenuta negli Atti del Convegno Nazionale: Tecnica di Idraulica Antica, Roma, 18 novembre 2016, a cura di: A. Fiore, G. Gisotti, G. Lena e L. Masciocco, in: "Geologia dell'Ambiente", Periodico trimestrale della SIGEA, supplemento al n° 3/2017.

(2) Augusto Cavallari Murat, Forma urbana ed architettura nella Torino Barocca, Vol. I, II, A1, UTET, Torino, 1968, pag. 368.

JULIA AUGUSTA TAURINORUM

I Romani prosciugarono e misero a coltura un territorio in buona parte formato da stagni, rivi, paludi ed incolti.  La centuriazione di Julia Augusta Taurinorum si estendeva a nordovest del Po e disegnava un territorio diviso in lotti dissodati e coltivati, delimitati da linee perpendicolari tra loro, ovvero decumani e cardini che prolungavano idealmente quelli tracciati all'interno dell'abitato. Agli incroci erano posti dei cippi in pietra detti termini, ma quali segnali di confine erano impiegati anche strade interpoderali, alberi, muretti, fossati e sponde di corsi d'acqua. Le aree quadrangolari così ottenute misuravano circa 50 ettari di superficie ed erano affidate ai coloni.

 

La bonifica e l'agricoltura irrigua presupponevano opere di captazione e irreggimentazione delle acque e reticoli capillari di distribuzione e drenaggio. (3) Tuttavia, le attestazioni storiche e i ritrovamenti archeologici, entrambi assai limitati, consentono di formulare un profilo generale di quadro, ma non di ricostruire, nemmeno in via congetturale ed approssimativa, i lineamenti della rete idraulica di età romana. Di seguito si fornirà, quindi, una semplice  sintesi ragionata delle principali questioni d'acque relative alla colonia taurinense.

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(3) Sulla centuriazione torinese si vedano tra gli altri: Emanuela Zanda, Centuriazione e città, in "Archeologia in Piemonte: l'età romana", Vol. 2°, a cura di Liliana Mercando, Umberto Allemandi & C, Torino, 1998, p. 60; Augusto Cavallari Murat, Forma urbana, cit. pp. 301-339; Amelia Carolina Sparavigna,  Augusta Taurinorum, città di Vitruvio, 2019, ⟨hal-02324295⟩, nonché la voce  Centuriazione di MuseoTorino e il video di ArcheoGat dedicato alle strade della colonia romana. -  Le centuriazioni della campagna torinese in realtà furono due. La prima, detta "di Caselle", interessava il basso Canavese nella zona compresa tra Valperga e Brandizzo, raggiungendo la periferia nord di Torino, pur interrotta diagonalmente dai boschi delle Vaude. Aveva una superficie di circa 300 km e orientamento nord-sud. ​La seconda centuriazione era definita "di Torino" e, con inclinazione dei cardini urbani di 22° e 33', divergente quindi rispetto a quella di Caselle, si estendeva verso le campagne meridionali, a sud delle Vaude, in un'area compresa fra Volpiano, Leinì e Malanghero. Attraversata da torrenti quali la Stura di Lanzo e il Sangone e ricca di aree acquitrinose, rispondeva anche alla necessità pratica migliorare il deflusso e lo scorrimento delle acque. Cfr. Chiara Zanforlini - Mura e porte città romane Piemonte, Accademia.edu.

L'ACQUEDOTTO

Nelle città romane l'acqua era considerata un bene essenziale di pubblico interesse. Augusta Taurinorum disponeva certamente di un apparato idrico interno, sia quale elemento irrinunciabile di ogni insediamento urbano, sia in virtù dei resti di fontane pubbliche, canalette di scolo, edifici termali, pozzi, nonché di una estesa rete fognaria, rinvenuti nel suo sottosuolo. (4

Acquedotto romano.jpg
Acquedotto-romano-2.jpg

Fig. 1.1 - Nella ricostruzione di Augusta Taurino-rum realizzata dall'arch. G. Gritella  ed espo-sta nella mostra 'Il Re e l'Architetto' (2012-13), l'acquedotto raggiungeva l'abitato poco sopra la porta urbica occidentale, la porta Decumana, o Segusina. L'eventuale collocazione è plausibile, va però rilevato che non deriva da fonti dell'epoca ma piuttosto dalla presenza di un manufatto analogo ad archi riportato nella cartografia tardo cinquecentesca e seicentesca.

Fonte dell'immagine: Torino Storia,

Discusso da storici ed archeologi resta invece il metodo di adduzione delle acque e  se l'abitato fosse rifornito o meno da un acquedotto. Studiosi ottocenteschi quali Carlo Promis e Ferdinando Rondolino, forse saggiamente, non hanno affrontato l'argomento. Oggi molti ritengono che un acquedotto sarebbe esistito perché, dati il significato e le funzioni dell'acqua nella romanità, semplicemente non poteva non esistere. Sistemi alternativi quali pozzi, sorgenti, serbatoi di raccolta delle piogge e una falda acquifera ricca e poco profonda in un primo tempo bastarono forse per soddisfare i bisogni idrici della colonia (4a )ma successivamente la lastricatura delle strade e lo sviluppo del sistema fognario avrebbero postulato la necessità di una struttura di adduzione dedicata. Presumibilmente, a causa della morfologia del territorio e la posizione della città, la sua orientazione sarebbe stata da ovest  a est, e derivata dalla Dora Riparia o magari da una risorgiva. Il primo tratto sarebbe stato sotterraneo, procedendo poi su arcate fino ad innestarsi nelle mura nei pressi di porta occidentale, o Pretoria. (5) L'ipotesi è plausibile, ma va ricordato che fino ad oggi non esistono prove storicamente fondate, documentarie o archeologiche, che testimonino l'esistenza del manufatto.

Acquedotto-di-Chieri.jpg

Fig. 1.2 - L'acquedotto romano di Chieri era formato da un condotto di sezione rettangolare con canaletta al centro e copertura in pietra, costituito da muratura di schegge di pietra e ciottoli di fiume legati con malta e calce. Scendeva dalla località Tetti Miglioretti di Pino torinese costeggiando la destra orografica del rio Tepice per circa 4 km e si stima avevsse una portata media di circa 4000 mc al giorno.

Fonte: Giuse Scalva, Gli acquedotti, cit.

Gli acquedotti romani non possono essere ridotti a semplici manufatti di adduzione ad archi, ma vanno intesi  come sistemi integrati formati da strutture di captazione, vasche di ripartizione (castellum aquae) e una rete capillare di condotti principali e secondari di distribuzione. Opere ingegneristiche di tale imponenza ed impatto difficilmente sono scomparse senza lasciare traccia sul territorio. Per contro, quella ad arcate non era la sola tecnica costruttiva e anche dei condotti sotterranei potevano garantire rifornimenti adeguati.

Il-pozzo-che-si-trova-nell’area-aperta-dell’edificio-antico-©-Soprintendenza-per-i-Beni-Ar

Fig. 1.3 - Pozzo romano rinvenuto a Torino nella domus di via Bellezia 6.

Fonte: Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie

Nella Gallia Cisalpina, e in Piemonte, non mancano le testimonianze di grandi condotti idrici di età romana, quali quelli di Aquae Statiellae (Acqui Terme),  Julia Derthona (Tortona), Libarna (Serravalle Scrivia), Pollentia (Pollenzo). Anche un'opera modesta per tecnica costruttiva e portata quale l'acquedotto che da Pino Torinese (Pinarium) scendeva verso Chieri (Carrerum Potentia), ha lasciato resti tangibili. (fig.1.2) (6) Nel caso torinese, pur a fronte di una rete fognaria vasta ed articolata, non troviamo tracce di alcun tipo di una struttura di approvvigionamento esterna all'abitato, e soltanto alcune fistulae aquariae in piombo e pochi blocchi forati appartenenti a un condotto sotterraneo sono stati reperiti all'interno. (figg.1.4-1.5) (7)

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Fig. 1.4 - Blocco in granito con cavità circolare ritenuto parte della rete di distribuzione delle acque nellla colonia, ritrovato, insieme ad altri 16, nel 2010-11, in via Bellezia 1-3.

Fonte: Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo di Antichità Egizie.

L’acquedotto romano, o quel che ne restava, è stato talora riconosciuto nella costruzione ad archi fuori la porta Segusina che compare nella cartografia e nell'iconografia cinquecentesca e seicentesca: l’opera sarebbe non solo esistita, ma sopravvissuta per secoli, al pari delle maggiori vestigia romane quali il teatro e l’anfiteatro. La questione è però più complessa: il manufatto è sicuramente esistito, ma numerosi indizi ne lasciano supporre risalga all'epoca del duca Emanuele Filiberto, (8) rientri nel contesto della sistemazione idrica dePalco del Viboccone e del giardino della residenza ducale torinese. Ma ovviamente ciò non comporta che Augusta Taurinorum non disponesse di un proprio sistema esterno di adduzione delle acque, o che gli architetti del duca abbiano riattato, almeno in parte, una struttura già esistente, la cui origine romana non è comunque accertata.

Il tema è di notevole interesse e sarà ripreso a breve.

La mancanza di evidenze fisiche dell'acquedotto potrebbe essere attribuita a vari fattori, in particolare all'espansione dell'ambiente urbano nel corso dei secoli potrebbe averne causato la distruzione e ai fatti d'arme, soprattutto dai combattimenti del 1706.  Inoltre, come in molti altri casi, i materiali potrebbero essere stati riutilizzati nel corso dei secoli per altre costruzioni, lasciando così poche prove della sua esistenza. Per contro va sottolineato che negli ultimi due secoli gli scavi e gli sbancamenti effettuati nell'area di piazza Statuto, dalla edificazione della piazza e dal trincerone ferroviario ottocenteschi, all'odierno Passante ed alla Metropolitana, non hanno portato alla luce nulla che riconducesse a questa struttura .

fistula in piombo.jpg

Fig. 1.5 - Tratto di tubo in piombo rinvenuto sotto il basolato del fornice della porta Fibellona. (Palazzo Mada-ma).

Fonte: Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo di Antichità Egizie.

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(4) Le testimonianze di archeologia idraulica dell'antica Augusta Taurinorum venute alla luce nel corso di lavori stradali e ricostruzioni sono assai frammentarie. I resti dello scarico di abitazioni private sono stati rinvenuti in via Botero, tra via Garibaldi e via Barbaroux, e tra via Bertola e via Monte di Pietà; elementi di edifici termali sono stati ritrovati in varie parti del centro storico, tra cui nell'antico Quartiere degli Svizzeri presso piazza del Duomo; per quanto concerne le tubazioni, tre fistulae in piombo sono emerse presso la porta urbica orientale (porta Fibellona, Palazzo Madama); un pozzo di 0,90 m di diametro è stato ritrovato nell'insula tra via S. Francesco d'Assisi, via Botero, via Monte di Pietà e via Barbaroux, ed altri sono stati individuati all'intersezione di via Santa Teresa e via XX settembre, in via Tasso e all'incrocio tra via Corte d'Appello e via delle Orfane. Cfr. R. R. Grazzi, Torino Romana, Il piccolo editore, 1983, Torino, pp. 22-25, e S. Caranzano, l'Archeologia in Piemonte, ANANKE, 2012, Torino, p.137. I ritrovamenti romani nel sottosuolo della città sono ormai abbastanza frequenti; l'elenco non vuol essere completo ed è facile presumere che molto altro verrà scoperto durante lavori della seconda linea della metropolitana.

(4a) Per un'esaustiva analisi della falda torinese cfr. S. Berruti, "Idrologia  torinese - Dell'acqua potabile in generale e dell'acqua dei pozzi e delle fontane di Torino" Articolo Secondo, in Giornale delle Scienze Mediche”, n° 17, 15 settembre 1859.

(5) Si vedano, ad esempio, il saggio di Giuse Scalva, Gli acquedotti, in "Archeologia in Piemonte", cit. e  G. Cresci Marrone e S. Roda, La romanizzazione, in Storia di Torino Vol. I, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1997, pag. 143.  L'archeologo Sandro Caranzano ritiene che in età romana ben difficilmente un acquedotto attingeva l'acqua dai fiumi, e ipotizza piuttosto che fosse alimentato da una risorgiva; nel caso taurinense avrebbe potuto trovarsi sul pianalto (Puteo de Strata?),

(6) Cfr. Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte, n° 12 (1994), p. 335 e il saggio Gli acquedotti Romani in Piemonte e Valle d'Aosta, in "Atti del Convegno Nazionale: Tecnica di Idraulica Antica", cit.

(7) Giuse Scalva, Gli acquedotti, cit.

(8) Si veda in proposito la stimolante ricerca bibliografica e cartografica di Fabrizio Diciotti pubblicata sull'annuario  2021 di Taurasia, periodico di informazioni del Gruppo Archeologico Torinese.

L'ACQUEDOTTO DI EMANUELE FILIBERTO: UN'OPERA DISCUSSA

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Una struttura ad arcate, definita esplicitamente "acquedotto", indicata dalla lettera X, compare nella prima rappresentazione di Torino risalente al 1572, commissariata dal Emanuele Filiberto al pittore fiammingo G. Carracha (Jan Kraeck). Taluni hanno ravvisato in essa i resti dell'acquedotto romano, ma  è probabile che si tratti invece di una complessa opera idraulica voluta dal Duca per rifornire d'acqua il giardino della propria residenza. 

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L'acquedotto è ben visibile anche in varie rappresentazioni pittoriche seicentesche, tra cui un disegno preparatorio della veduta di Torino a volo d'uccello del Theatrum Sabaudie, peraltro omessa nella versione definitiva della raccolta.

Fonte: Gallica - BNP

LA RETE FOGNARIA

Presso i Romani, era ritenuta una priorità igienica allontanare gli scarichi e i liquami dalle città e prevenire gli allagamenti e i danni causati dalle precipitazioni più intense. La rete di deflusso della colonia taurinense si presume sia stata realizzata nella seconda metà del I secolo d.C. e ciò che ne resta costituisce la maggiore testimonianza idraulica della colonia. (9) Gli assi portanti del sistema correvano sotto i decumani, verso cui confluivano le canalette dei cardines. I cunicoli sotterranei erano larghi in media 60 cm, alti fino a 160 cm, e formati da murature a sacco in ciottoli legati da malta, coperti con volta a botte e rivestiti di mattoni all'interno per facilitare lo scorrimento delle acque. La rete si sviluppava per circa dieci chilometri nel sottosuolo delle principali strade, scendendo fino a 4 m sotto il piano stradale odierno. Attraverso chiusini posti a regolare distanza raccoglieva le acque piovane e gli scarichi delle abitazioni patrizie. L’inclinazione del territorio favoriva il drenaggio e lo smaltimento delle acque a nord-est verso la Dora ed il Po. Per rallentare la velocità dei flussi, scongiurare i rigurgiti ed evitare l'erosione dei basamenti delle torri di guardia, i condotti in uscita dalla città tagliavano la cinta muraria in diagonale. I resti di uno di questi fognoli di scarico sono tuttora visibili in via Giulio vicino al basamento della torre angolare della Consolata. Possiamo immaginare che la pulizia dell'abitato e l'igiene pubblica richiedessero volumi d’acqua considerevoli e regolari, comunque essi fossero assicurati.

Un reperto di grande interesse è venuto alla luce nel 1938 nel corso dei lavori di rifacimento di via Roma, quando alla profondità di 5 m sotto il piano stradale è stato ritrovato un collettore fognario di ragguardevoli dimensioni, alto ben 2,75 m e largo 1,80 m all'esterno, e rispettivamente 1,85 m e 0,60 m all'interno. Le pareti e il volto in muratura mista di mattoni e pietrame facevano corpo con il fondo di mattoni appoggiati su muratura concretizia e la copertura di circa 35 cm di  raggio. (10) Il condotto usciva dalle mura meridionali attraversando in diagonale la futura piazza S. Carlo, proseguendo verso sudest e via Arcivescovado. La posizione lascia supporre che il cunicolo, coperto anche in aperta campagna, smaltisse le acque reflue bianche e nere dell’anfiteatro situato fuori la porta Marmorea, e forse anche quelle dei giochi acquatici, ma le dimensioni suggeriscono che potesse svolgere anche funzioni di scarico più generali. (11) Ampie rimanenze dell’opera sono visibili nel parcheggio sotterraneo di piazza CLN.

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(9) Si vedano, tra gli altri: Guida archeologica di Torino, Vol. II, a cura del Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2010, in particolare le pp. 7-12 e  22-26; Torino Romana, op.. cit.; C. Promis, Storia della Torino antica, Torino, ristampa anastatica 1969,  A. Viglongo & C. Editori, pp. 184-185; C. Zanforlini, Mura e porte... cit. Si veda inoltre la voce Impianti idraulici di MuseoTorino.

(10) Torino Romana, op. cit, p. 23.

(11) L'effettivo svolgimento di battaglie navali e giochi acquatici nell'anfiteatro taurinense è però discusso dagli archeologi.

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Fig. 1.6 - A sinistra: incrocio della cloaca principale con un ramo secondario, in via Conte Verde. A destra: il grande cunicolo fognario conservato nel parcheggio sotterraneo di piazza CLN.  

Fonte: Museo Torino e Torino Storia.

LA FORZA MOTRICE IDRAULICA

L'utilizzo dell’energia meccanico-idraulica nella Torino romana è stato ipotizzato da vari studiosi, ma la questione rimane controversa. Nella colonia gli artigiani si riunivano in corporazioni quale quella dei fabri, dei centonarii (lanaioli), degli iumentari (mulattieri), degli aerarii (armaioli) e dei cavatori di pietre. Secondo F. Rondolino, al tempo del vescovo Massimo, presso la porta Palatina i tessitori utilizzavano fullones da panni mossi da un canale derivato dalla Dora(12) Le testimonianze di attività in loco legate al fiume non mancano, e in tal senso si giustificherebbe, ad esempio, l'uso termale di un grande edificio pubblico decorato, i cui resti sono stati rinvenuti sotto l'odierna piazza Emanuele Filiberto. Più in generale, l'esistenza di strutture pubbliche di probabile natura produttiva o commerciale renderebbero plausibile lo sviluppo fin dall'età romana, e forse anche prima, di un popolato quartiere manifatturiero tra il margine cittadino settentrionale e la Dora. (13) Anche le caratteristiche naturali del territorio favorivano la captazione delle acque. L'analisi geologica ha confermato la formazione in passato di ramificazioni laterali nel tratto pianeggiante della Dora, potenzialmente utilizzabili per il movimento di macchine idrauliche, in seguito abbandonate spontaneamente, o scomparse per rettifica, o colmate per ampliare l'insediamento. (14) Tuttavia un quadro ambientale favorevole e l'esistenza di un suburbio produttivo, di cui peraltro non possiamo delineare l'assetto, non sono sufficienti per affermare l'impiego abituale congegni idraulici nella colonia torinese. E' probabile infatti che anche qui la follatura dei tessuti fosse affidata a manodopera schiava, mettendo a bagno le pezze tessute in grandi vasche piene d'acqua e battute con i piedi e sfregate con le mani, come avveniva usualmente nella romanità. (12a)

L'esistenza di forme di insediamento esterne le mura settentrionali di Augusta Taurinorum è corroborata dall'imponente fronte di anfore rovesciate risalente al I-II secolo d.C. scoperto in prossimità della Dora fra il 1830 e il 1838. Le anfore erano poste, rovesciate, nel sottosuolo a circa due metri di profondità e ordinate su uno o due strati che coprivano un’area di circa mezzo chilometro di lunghezza per oltre 250 m di larghezza, collocato dal Promis «nel tratto che va da piazza della Frutta (Porta Palazzo) all’ospizio Cottolengo». Egli attribuì loro una funzione nella produzione dell’argilla, ma interpretazioni più recenti ritengono costituissero un sistema di drenaggio, contenimento e bonifica del terreno acquitrinoso a protezione del borgo esterno dalle esondazioni della Dora. (15)

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(12) Atti della Società Piemontese di Archeologia e delle Belle Arti, F. Rondolino, Storia di Torino antica, Torino, 1930, p. 337. L'ipotesi di un generico uso di macchine idrauliche nella colonia romana è formulata anche da altri, tra cui A. Cavallari Murat nell'opera più volte citata, ma oggi pare meno accreditata.

(12a) L'energia idraulica è stata certamente prodotta ed utilizzata in età romana, dapprima per la macinazione del grano e successivamente anche per altre applicazioni industriali. Tuttavia gli studiosi si dividono sull'effettiva incidenza e sulla sua diffusione. Alcuni sottolineano le competenze idrauliche raggiunte dagli ingegneri romani, che ben conoscevano le ruote idrauliche ad asse orizzontale e verticale e i problemi di trasmissione del moto, valorizzando i maggiori esempi di applicazioni "industriali". (Ad esempio, cfr. Edoardo Gautier di Confiengo, Macchine idrauliche, in Tecnica di Idraulica Antica, cit.). Altri ritengono invece che l'uso della forza idraulica, nei fatti, fosse limitato e marginale, principalmente a causa dell'abbondante quantità di manodopera a basso costo, anche schiava, che non incoraggiava la meccanizzazione dei processi produttivi. (Tra i tanti, cfr. Reynolds, Le radici medioevali della rivoluzione industriale.)

(13) Un ampio e aggiornato resoconto dei ritrovamenti romani nell'area di porta Palazzo è contenuto nella Verifica preventiva dell'interesse archeologico, e nella Proposta dei sondaggi archeologici, in Città di Torino - "Intervento di ristrutturazione urbanistica in piazza della Repubblica 13", a cura di F. Occelli.

(14) E' probabile che in origine, in epoca medioevale, i Molassi, ossia i grandi molini da grano della città di Torino, siano stati alimentati da una divagazione secondaria della Dora. Cfr. in merito V. Marchis, Acque, ruote e mulini in "Acque, ruote e mulini a Torino", a cura di G. Bracco, Vol. II, Archivio Storico della Città di Torino, Torino 1988, pag. 

(15) C. Promis, Storia della Torino antica, cit. p. 192. L'autore valutò l'opera costituita da almeno 1.350.000 pezzi, forse addirittura più di un milione mezzo, giudicandola un ritrovamento colossale che non trovava paragoni altrove. Gli scavi iniziali, peraltro, non hanno trovato altri riscontri successivi e oggi si pensa che le anfore non costituissero una linea di protezione continua, ma coprissero soltanto piccole aree dove il terreno era più umido e meno stabile. Si vedano anche le voci di MuseoTorino 'Bonifiche e drenaggi del terreno', 'Una gigantesca opera di bonifica?' e inoltre Città di Torino - Intervento di ristrutturazione urbanistica, cit.

I PONTI E I FOSSATI

Il Po e la Dora erano entrambi attraversati da ponti. Secondo Fabrizio Rondolino, quello sul Po era probabilmente posto sotto il monte dei Cappuccini già in epoca romana, e a causa dell'ampiezza e della profondità del fiume e della necessità di salvaguardare la navigazione, difficilmente era costruito in pietra. La Dora invece, meno ampia e meno profonda, era attraversata da un ponte in pietra della regione delle Maddalene appartenente alla strada diretta verso la Pianura Padana. Il ponte romano fu demolito all'inizio del Trecento per ottenere il materiale lapideo per il palazzo degli Acaja (palazzo Madama), poiché il fiume aveva ormai cambiato il suo corso e abbandonato quella parte dell'alveo. (16) Il principale guado sulla Stura si trovava presso l'odierna Abbadia e in tale luogo rimase nei secoli successivi. (17) 

Le mura romane avevano certamente un significato simbolico ed ideologico ma al contempo anche funzioni difensive. Carlo Promis ritiene che durante l'età barbarica la città fosse circondata da un fossato, ma esclude che altrettanto accadesse in epoche precedenti, senza però esprimere un giudizio sulla possibilità che tale fossato fosse riempito d'acqua. (18)  Alcuni scavi compiuti nel 2001 hanno individuato un fossato orientato in direzione nord-sud, che costituiva un vallo esterno distante circa 15 m dalle mura; largo 8 m nella parte superiore, le pareti digradavano verso il fondo con lieve pendenza per circa 2 m. (19)

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(16) Cfr. Il ponte romano in pietra e gli scherzi della Dora, CDS - Circ. 5 (opuscolo).

(17) Cfr. C. Promis, Storia dell'antica Torino, Julia Augusta Taurinorum, Torino, Stamperia reale, 1869, Ristampa anastatica 1969 A Viglongo Editore, p. 180.

(18) Cfr: F. Rondolino, Storia di Torino antica, cit, p. 256.

(19) Cfr. C. Zanforlini, Mura e porte, cit.

LA NAVIGAZIONE FLUVIALE

Augusta Taurinorum non è ritenuta una città fluviale, sia per la posizione sopraelevata e la distanza che la separava dai suoi fiumi, sia perché la fondazione rispondeva in primo luogo al controllo dei transiti alpini. Si ritiene però che la romanizzazione abbia sviluppato la navigazione commerciale fluviale praticata in precedenza. I Celto-Liguri pare percorressero il Po a partire da Bodincomagus - la città romana di Industria, oggi Monteu da Po - posta alla foce della Dora Baltea valdostana, dove si attestavano le imbarcazioni che risalivano dall' Adriatico e dove convergevano le popolazioni montanare delle Alpi e degli Appennini occidentali per le fiere. (20) E' possibile che in condizioni favorevoli le loro zattere risalissero, o navigassero, anche il corso della Dora Riparia.

Secondo Plinio il Vecchio le imbarcazioni raggiungevano Augusta Taurinorum. E' logico attribuire la percorribilità dei circa 25 km dopo l'approdo di Bodincomagus alla sistemazione di fondali e sponde realizzata tra il I e il II secolo a.C. per contenere ramificazioni e divagazioni ed aumentare la profondità e il pescaggio del fiume, a cui contribuivano anche gli apporti d'acqua della Dora Riparia e della Stura di Lanzo. Alla luce della narrazione di Plinio, la colonia costituiva  il terminale ultimo dell'asse fluviale adriatico-padano e possedeva necessariamente un porto, o perlomeno un approdo dotato di banchine, come suggeriscono i resti di depositi per le merci ed edifici commerciali rinvenuti nei pressi del Po e della Dora. (21) E' comunque plausibile che la città fosse raggiunta dai natanti di minori dimensioni, subordinatamente alle effettive condizioni dei fiumi.

Fattori di ordine naturale condizionavano in concreto la percorribilità dei fiumi torinesi e le tipologie dei mezzi che li solcavano. Pur in presenza di precipitazioni più abbondanti delle attuali, le portate dei corsi d'acqua erano limitate dalla vicinanza alle sorgenti e, nel caso della Dora Riparia, dalla natura spiccatamente torrentizia e dalla variabilità stagionale. La navigabilità di questo fiume era insidiata anche dal rallentamento della corrente nel tratto pianeggiante, dove il flusso si ramificava in più alvei poco profondi. Per contro, i pochi chilometri rimanenti prima della confluenza potevano essere risaliti dal Po fornendo, forse, un secondo scalo alla città.

Le imbarcazioni utilizzate dai Romani e dalle popolazioni precedenti dovevano essere piccole, leggere e capaci di manovrare velocemente eseguendo curve anche strette per affrontare le correnti irregolari e i banchi di ghiaia affioranti. Le più usate erano probabilmente piroghe di varie dimensioni e fogge, simili a quelle rinvenute altrove in Piemonte. Il trasporto di pietre, legname e merci pesanti si suppone fosse affidato a zattere corte e non troppo larghe, formate da tavole e traverse in legno, che per contenere il dislocamento e consentire il maggior carico possibile si presume fossero costituite da scafi affiancati. Sotto il profilo archeologico, va però osservato che, pur nella certezza di rotte e trasporti, in Piemonte non sono state ritrovate navi da carico di età romana. (22)

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(20) Cfr: G. Uggeri, La navigazione interna della Cisalpina in età romana in: “Antichità Altoadriatiche XXIX (1987), Vol. 2, EUT Edizioni Università di Trieste, Trieste, 1987, pp. 323-324 e Marco Bonino, Argomenti di archeologia navale in Piemonte, Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, Anno XXI, 1967, pp.16-28.

(21) I lavori di costruzione del parcheggio sotterraneo di piazza Vittorio Veneto hanno portato alla luce  resti di varie epoche. Ad un probabile magazzino più antico, ne è seguito un secondo, più grande, a base rettangolare di 15,50 m di larghezza per 37,70 di lunghezza, con superficie interna di circa 585 mq e capacità di oltre 1000 mc, databile tra il I e il III secolo d.C. Esso è stato classificato come horrea, ossia un magazzino generale per l'approvvigionamento di derrate per la città. Cfr. L. Pejrani Baricco, M. Subbrizio, L’indagine archeologica di piazza Vittorio Veneto a Torino. L’età Romana, in "Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemone, n° 22 (21007), pp. 105-123 S. Caranzano, Archeologia in Piemonte prima e dopo Ottaviano Augusto, ANANKE, Torino, 2012, p. 134 e segg. Per la Dora, oltre quanto già detto, si veda anche: A. Bocco Guarneri, Il fiume di Torino: viaggio lungo la Dora Riparia, Città di Torino, 2010, pag. 140.

(22) Argomenti di archeologia navale, cit.

Online dal: 03/03/2023

Ultimo aggiornamento: 12/08/2023

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