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Il follone del Martinetto del fabbricatore di panni

Cornelio Vanderkrech

Il follone del mastro fabbricatore di panni fiammingo Cornelio Vanderkerch è stato uno dei primi insediamenti dell’area protoindustriale del Martinetto, a Torino. L’opificio risaliva al 1721; venne smantellato cinquant’anni più tardi al termine di una lunga controversia d’acqua con la Municipalità e poi trasformato nell’Ospizio celtico, un’opera di pubblica assistenza alle prostitute ammalate di sifilide.

Il follone Vanderkirck al Martinetto - Torino

La Carta delle Regie Cacce (1762) inquadra l'edifizio del follo-ne nel territorio del Martinetto. La posizione prossima alla Dora che impedisce la restituzione dell’acqua al canale principale sarà causa della sua scomparsa. Si noti la deformazione del cognome, una delle tante subite dal tessitore fiammingo

 

AST, Carte topografiche e disegni,  Carte topografiche segrete, Torino 15 A VI Rosso, f. 3  (particolare)

Torino 1720. Terminati l’assedio e la battaglia di Torino, da qualche anno il quattrocentesco molino del Martinetto è stato ricostruito un paio di miglia a ovest della porta Susina. Le sue macine sono ora mosse dalle acque del canale della Pellerina, le quali dopo l’uso si riversano nella Dora attraverso un breve condotto, detto “bealera” o “scaricatore dei molini del Martinetto”. Il mulino sorge sul ciglio del pianalto che si affaccia sulle basse di Dora e la bealera possiede un buon potenziale dinamico non ancora utilizzato.

Cornelius Vanderkerch. Non si sa molto del tessitore fiammingo. Egli proviene dal Belgio, o dalle Fiandre, ma, contrariamente ad altri artigiani stranieri arrivati in Piemonte, nulla è dato di conoscere circa gli ascendenti, l’età, la città di nascita, la religione e le circostanze che lo hanno condotto in città. È probabile che il cognome reale sia Van der Kerch, o Van der Kerken, che nei documenti sarà traslitterato foneticamente in “Vanderkrik”, peraltro con un buon numero di varianti per tipo e posizione di vocali e consonanti. La forma “Vanderkerch” è dedotta dalla firma, chiara e leggibile, apposta dagli eredi su un atto del 1771. All’epoca dei fatti Cornelius esercita da anni la professione di fabbricante di panni nell’Ospedale di carità, di cui fin dall'inizio del secolo è stato nominato direttore, carica che conserverà per ben 17 anni. Come altri protoimprenditori stranieri, forse, è giunto negli Stati Sardi incoraggiato dalla politica volta a favorire l’immigrazione di artigiani e lavoranti specializzati per supplire a quel know-how produttivo e innovativo che in loco difetta. Egli è giunto a Torino in compagnia di Giuseppe, “figlio di primo letto”, nato da una precedente unione, forse legittima forse meno, e ad esso resterà profondamente legato. Qui sposa Cristina Francesca Pola e dall’unione nascono le tre figlie Brigida, Ottavia Domenica e Ludovica Cristina Carlota, quest’ultima probabilmente concepita fuori dal matrimonio. A Torino finirà i suoi giorni dopo una vita che possiamo immaginare lunga e segnata dal successo economico e dall’affermazione sociale, come i buoni matrimoni contratti dalle figlie paiono testimoniare. (1)

Il Memoriale a capi. Nel memoriale a capi (2) presentato a Vittorio Amedeo II il 26 giugno 1720, «Cornelio Vanderkrec fiammingo fabbricatore de panni in questa città da 17 anni, e più in qua» dichiara «di aver sin qui tenuta la fabbrica d’essi panni all’Ospedale della Carità (3) Egli sostiene di aver «oltre li panni fatto con distinzione di bontà, tanto per la Cavalleria, che per la fanteria della M.V., e con più raggioneuole prezzo delle altre fabbriche […] ed introdotto la fabbrica delle cuoperte di lana di una larghezza, finezza, e bontà particolare, manifattura, e mercantia mai stata fabbricata in questo paese». Afferma inoltre di voler «continuare, et ampliare tal fabbrica, senza però desistere da quella de panni, che è sua naturale professione» e di esercitarsi «per riuscire in quelli più fini dà servirsi al pubblico, e persone civili e di buon gusto, con tingerne in colori buoni». Desiderando «in somma radicare in questo Paese per quanto si estendono le sue forze, et industria tal professione, et arte della fabbrica de panni […] e sapendo quanto è grande la magnanima attenzione della M.V. nel procurare a beneficio de suoi popoli la dillatatione delle arti col protegere, e porger aiuto a chi ha buona, e sincera volontà di attendervi». Il richiedente invoca una lunga lista di aiuti, protezioni e privilegi, a cui Vittorio Amedeo accondiscenderà di buon grado, con la ripetuta raccomandazione soltanto circa la buona qualità delle future produzioni.

Nel primo capo il tessitore chiede, ed ottiene, gli sia riconosciuta una considerevole commessa militare quale sostegno alle nuove creazioni che si accinge a intraprendere. Come già è avvenuto in precedenza e con successo con le coperte, egli intende ora tentare la fabbricazione di panni di nuovo tipo e miglior qualità, rivolti alla domanda privata. La commessa richiesta riguarda «rasi 18.000 panno per anni tre prossimi, cioè 6.000 cad. anno, cioè parte Lodéves per la cavalleria e parte piccolo Lodéves per la fanteria, tutti di color grigio solito ed ai prezzi oggidì stabiliti e correnti con l’Ufficio Generale del Soldo». (La stoffa detta Lodéves prendeva il nome dalla città della Francia, specializzata nella produzione di panni-lana per l'esercito --> Loden?).

Il secondo capo obbliga Vanderkerch «di far fabbricare in ciascuno dei tre anni [successivi] cinquecento cuoperte da letto di lana di tre sorti di grandezze, cioè grandi, mezzane e piccole, e quelle di lana di Spagna, di Roma, et Barbania». Con la riserva, nel caso in cui il primo anno non riuscisse a vendere tutte le coperte, di poter ridurre la produzione nei due anni successivi, evitando così che l’invenduto sia «causa della sua rovina». Vittorio Amedeo dal canto suo esprime il desiderio che le coperte vengano vendute ai suoi sudditi «a minor prezzo del sin qui praticato da

XVIII - Lavatura e sgrassatura dell lana.

Le manifatture dei panni utilizzavano l'acqua in più fasi del processo produttivo, ed in particolare nel lavaggio e nella sgrassatura della lana. Nel disegno un operaio la lava in una tinozza, un altro la sciacqua in acqua corrente, altri due la agitano e viene infine messa ad asciugare su un graticcio

Fonte: Il mestiere e il sapere duecento anni fa. Tutte le tavole dell'Encyclopedie francaise, a cura di J. Proust, Mondadori, 1983.

mercanti». E che Vanderkerch oltre alle 500 coperte «ne faccia […] fabbricare in cadun anno 50 delle più ordinarie, eziandio di lana del Paese, […] a condizione che tanto per la fabbrica d’esse cuoperte, che panni, si impieghino intieramente tutti li operarij e poveri dello Spedale […] il numero dei quali, quando non fosse sufficiente sarà permesso all’Esponente di servirsi di altri operarij».

Nel terzo capo ai panni ed alle coperte di Vanderkerch destinati al pubblico è concessa la totale esenzione, per tre anni, di ogni diritto di dogana e di qualsivoglia gabella negli Stati di sua maestà, con particolare riferimento «ai paesi di nuovo acquisto». (4) Con il capo successivo il sovrano dà mandato all’Ufficio Generale del Soldo di accordare all’imprenditore fiammingo un prestito, senza interesse, di 10.000 lire, da restituirsi nei tre anni seguenti, scontandolo dal valore del panno che sarà consegnato ai magazzini militari.

Martinet-Valdocco fine XVII sec.

La "Carte del Montagne de Turin" non ha data certa ma risale alla fine del XVII, e comunque è anteriore al 1706. In essa non compare quindi alcun elemento territoriale riconducibile a quello diventerà «il Martinetto» . L'area per ora è indicata con l'indistinto toponimo di «Val Doch». Il molino del Martinetto originario è visibile sulla desta in basso.

Fonte: AST, Carte topografiche e disegni, Carte topografiche per A e per B, Torino, Torino 14 (particolare)

Il quinto capo: il follone. Di particolare interesse è il quinto capo del memoriale, in cui Vanderkerch afferma che «la riuscita dei panni, e manifatture di lane dipende particolarmente dal follone [ed] essendone [egli] quasi sprovvisto per l’imperfezione di quello dell’Ospedale, desidererebbe farne costruere uno nuovo a suo genio e con particolar simetria». A tal fine supplica il sovrano di concedergli un sito all’Abbadia di Stura «sopra la strada grossa» o vicino al molino del Martinetto; il sito deve essere attraversato da una bealera. Per l’acquisto del terreno chiede un anticipo di 2.500 lire, da scontarsi anch’esso sulle future forniture.

Sua Maestà acconsente sia all’impianto che al prestito, decretando che «il folone dovrà stabilirsi a maggior comodità della fabbrica vicino al mollino del Martinetto», permettendo di «potersi valere in ogni tempo dell’acqua della bealera, senza verun pagamento e senza abuso e pregiudizio de terzi». Per regio volere il follone resterà, come espressamente richiesto, di proprietà del Vanderkerch; potrà però essere impiegato soltanto per la follatura dei panni e dei tessuti in lana, «con l’obbligo di servire indistintamente il Pubblico a follare ogni stoffa, et opera di lana manifatturata ad un prezzo conveniente, si et come verrà stabillito dal Consolato, senza che possi in qualsivoglia tempo, né per qualsivoglia causa, alterarne il prezzo»: Vittorio Amedeo tutela in questo modo anche l’interesse economico generale dei suoi Stati.

Nel capo successivo è permesso a Vanderkerch di servirsi nei tre anni successivi degli «ordegni» per la fabbricazione di panni e coperte esistenti nella fabbrica dell’Ospedale, impegnandolo a integrarne eventualmente il deprezzamento dovuto all’uso. Nell’ultimo capo egli ottiene, su una genuina falsariga liberista, che la deliberazione diventi immediatamente operativa, senza alcuna «spedizione camerale [ossia nessuna ulteriore approvazione], per evitare le longhezze, dificoltà, e dispendij che s’incontrano per tal canale, poiché per affari di commercio nulla più disturba che la longhezza, e difficoltà delle spedizioni». Le Patenti emanate il 30 giugno 1720 da Vittorio Amedeo II recepiscono il memoriale e danno avvio ai lavori.

 

Follone da panni lana

La figura mostra il disegno di un follone da panni della metà del XVIII secolo. Il suo valore è soltanto indicativo, poiché ogni macchina era un pezzo unico costruito ad hoc. I folloni potevano quindi assumere fogge e caratteristiche diverse, fatto salvo il principio meccanico di funzionamento, basato sul movimento verticale alternato di martelli, generato da una ruota idraulica.

Fonte: Il mestiere e il sapere duecento anni fa. Tutte le tavole dell'Encyclopedie francaise, a cura di J. Proust, Mondadori, 1983

Il mercantilismo di Vittorio Amedeo II.

Vittorio Amedeo II è noto quale astuto politico e abile stratega militare, ma negli anni di pace dimostrò anche lungimiranti virtù in campo economico, promuovendo una vera politica industriale "ante litteram", di cui il caso in questione non è che un esempio. (5) Tale politica, che proseguirà con il figlio Carlo Emanuele III, (6) è volta a stimolare e sostenere un’imprenditoria locale ancora debole, incoraggiando l'intervento degli imprenditori stranieri in Piemonte, sia direttamente, fornendo capitali, manodopera ed altri fattori produttivi, sia indirettamente, attraverso commesse pubbliche, privilegi e protezioni doganali. Gli esiti non saranno troppo soddisfacenti, ma è comunque interessante rilevare l'affermazione negli Stati sabaudi del dettato mercantilista e dirigista. In tal senso Vittorio Amedeo incoraggia, sostiene e finanzia l’imprenditore fiammingo, subordinandone al contempo l'iniziativa all’interesse generale. Il sovrano non solo intende esplicitamente promuovere il benes-

Vittorio Amedeo II

sere dei suoi sudditi, ma assoggetta la concessione del follone a specifici obiettivi. In questo modo mira a favorire l’innovazione, (7) persegue il contenimento dei prezzi e tutela la libera concorrenza imponendo l'obbligo della follatura in conto terzi. Iin ultimo ma non ultimo si prefigge fini sociali comandando la piena occupazione e la preferenza nelle assunzioni dei poveri dell’Ospedale di Carità. Nel campo dell'industria della seta l'opera legislativa di Vittorio Amedeo II segna il passaggio dalla regolazione dell'attività privata all'azione diretta dello Stato, con i  tentativi di promuovere la lavorazione in loco della materia semigreggia, che dopo le lavorazioni (trattura e torcitura) veniva esportata, ritornando sui mercati locali sotto forma di tessuti. (7a)

Il caso del fabbricante comasco di mole e macine da mulino Bernardo Ceresole sarà per certi versi analogo a quello del tessitore fiammingo. Dopo aver proibito l’importazione di tali prodotti dallo Stato di Milano, Vittorio Amedeo, con Lettere Patenti del 6 marzo 1730, lo invita a venire in Piemonte. In cambio gli concede una privativa di vent’anni e la completa esenzione di dazi, la libertà di servirsi delle pietre delle cave locali come avrebbe ritenuto opportuno, convenendone il pagamento con i proprietari, la facoltà di portare con sé gli operai specializzati, concedendo loro importanti benefici quali l’esonero da ogni dovere fiscale e dall’obbligo di servire in guerra. Per contro il Sovrano chiede soltanto che la qualità e la durezza delle mole prodotte sia comparabile a quelle milanesi. Tutto ciò pare anticipare una politica di “sostituzione delle importazioni. Essa trova il suo fulcro proprio nel proibire l’importazione dall’estero di taluni beni ed al contempo incoraggiare con opportuni incentivi le imprese straniere a portare gli stabilimenti nel paese.

(Su quest'ultimo caso cfr. Acque, ruote e mulini a Torino, a cura di G. Bracco, Città di Torino, Torino, 1988, vol. 2, p. 56)

Il progetto si concretizza. Il sito destinato al follone è un prato, prossimo alla Dora e alla bealera dei molini del Martinetto, «di circa una giornata situato nella regione di Valdocco e tenuto dall’Ill.mo e Reverendissimo Monsignor Carlo Giuseppe Morozzo Vescovo della Città e Diocesi di Saluzzo, Commendatario dell’Abbazia di S. Michele». Il prelato acconsente a cederlo poiché «si tratta di un bene, ed a vantaggio pubblico per l’introduzione di detta fabbrica sul prato e per altre degne cause». Pone però la condizione di ricevere in cambio un fondo «in misura di egual bontà», attiguo ad altro bene della Commenda, affinché questa non subisca danno. (8) L’acquisizione comporta quindi una permuta, peraltro facilitata dal regio patrocinio di cui gode l’impresa. L’appezzamento da scambiare viene individuato in un fondo appartenente a tal Pietro Giuseppe Collo. Egli non è favorevole allo smembramento della proprietà, contrario ai propri interessi, tuttavia acconsente alla transazione per compiacere sua maestà, che si conferma ancora una volta il deus ex machina dell’impresa. Nel mese di luglio si procede dunque all’acquisto di una giornata e sette tavole di terreno per le quali Collo riceve 1.600 lire, anticipate dalle regie finanze. (9) Il 21 novembre successivo viene siglato l’atto di permuta, che include servitù e diritti gravanti sui fondi, compresi quelli d’acqua. Vanderkerch può ora procedere  icon la costruzione del follone.

L'edificio della manifattura.

 

Non sembrano esistere planimetrie della fabbrica e del follone, diverse dalle mappe a grande scala della regione del Martinetto. Disponiamo tuttavia degli estimi della proprietà redatti dagli architetti S. Riccati nel 1771 (10) e P. Rocca nel 1776, (11) nonché di alcuni disegni successivi risalenti agli anni Quaranta dell’Ottocento attraverso cui è possibile abbozzare una descrizione della manifattura che, pur comprendendo trasformazioni ed addizioni avvenute nel corso degli anni, non dovrebbero differire troppo dal progetto originario.

La proprietà Vanderkerch è situata a poche centinaia di metri dalla Dora, prossimo alla sponda sinistra del canale del Martinetto e alla strada che conduce al guado di Lucento e alle fornaci, attraversato da una breve bealera derivata dal vicino canale. Nella geografia urbana di oggi essa corrisponderebbe al quadrante disegnato a nord-est dell’intersezione dei corsi Regina Mar-gherita e Tassoni. La manifattura risulta composta da due corpi di fabbrica, il maggiore rivolto a levante, l’altro a mezzogiorno. Quest’ultimo, suddiviso in due locali, separati da una scuderia e sovrastati da un fienile, è probabilmente frutto di un'addizione successiva. Questo

L'edificio del follone è collocabile con buona approssimazione grazie ad una sussistenza territoriale: il canale del Martinetto passava proprio nel varco tra i due palazzi di c.so Regina Margherita visibili nella fotografia

ultimo, suddiviso in due locali, separati da una scuderia e sovrastati da un fienile, è però forse frutto di un’addizione successiva. Il corpo di levante corrisponde a un casamento di cinque piani, di cui tre fuori terra. Le attività produttive sono collocate nel seminterrato, dove trovano posto la tintoria, la pressa, i folloni e un magazzino. È probabile che la loro collocazione, intermedia tra il piano terreno e i sotterranei, sia da ricondurre ai vincoli imposti dai motori e dalle trasmissioni idrauliche. Il piano superiore si sviluppa sull’intera lunghezza del fabbricato ed è ripartito in più stanze, a loro volta divise da tramezzi. Segnatamente tre vani sono posti sopra la tintoria, due sulla pressa, il locale della filatura delle lane sovrasta il follone e un altro il magazzino. Il piano successivo impegna una parte soltanto dell’edificio, con le due sale dei telai dei panni poste a filo della tintoria e della pressa. In ultimo una galleria ad arcate aperte verso levante e mezzogiorno ripartita in più spazi separati completa l’edificio. Il complesso è dotato di due cantine; le scale interne ed esterne sono in legno; la copertura del tetto in tegole. (12)

Martinetto, Torino, 1748

Non esistono rappresentazioni cartografiche del contesto geo-idraulico in cui il follone fu concesso. La carta proposta risale al 1748 e inquadra l'opificio nel nucleo produttivo in formazione lungo il canale. Il problema che la posizione del follone rappresenta è evidente: disperde le acque reflue nella Dora sottraendole al canale del Marti-netto. Si noti l'ennesima distorsione del nome del proprietario.

Fonte: ASCT, CS 2051

Le pertinenze comprendono l’orto ed il vasto giardino cintato che a levante si apre su due peschiere. La fabbrica non solo è circondata da uno spazio agreste e rurale, ma il gran numero di piante e alberi da frutto che la circondano costituiscano un elemento patrimoniale che si può supporre produca un reddito non indifferente. Dai consegnamenti degli eredi Vanderkerch del gennaio 1771 si apprende infatti che «sovra il getto della bealera verso notte esistono 70 piante fruttifere di pomi, peri ed altri frutti»; che «attorno le due peschiere trovansi 22 piante di salici e 47 piantini di peri»; che «avanti la fabbrica a mezzogiorno vedonsi piantati 22 pali di castagno che servono alla topia (pergola)». Nel giardino si contano poi altre «420 piante fruttifere di peri e persici (peschi) di diversa qualità» e «risultano pure piantate contro e longo la muraglia [del giardino altre] novantanove piante di persici e peri». «Al longo delle due muraglie di cinta nell’ingresso della fabrica ed al longo di detta fabbrica si consegnano 95 piante di viti di diversa qualità». Sul getto della bealera, verso mezzanotte, sono piantati altri settanta alberi, tra cui peri, meli e altri alberi da frutta. (13)

I consegnamenti già citati descrivono minuziosamente anche mobili e «ordegni» della fabbrica. Il lungo elenco di ben settantadue capi include caldaie e «potageri», presse, folloni, telai, torni, mole e una moltitudine di strumenti e attrezzature per la tessitura, talora dagli enigmatici nomi di origine dialettale. I folloni installati sono tre. L’apparato motore comprende le due ruote idrauliche, gli alberi motori e le trasmissioni. Il controllo delle ruote e dello scaricatore è affidato ad una chiavica con di tre porte in ferro manovrate da catene. Ogni ruota è servita da un «caminasso», il che lascia supporre che esse fossero alimentate “di fianco”. La bealera dello stabilimento scorre a nord della fabbrica e si scarica nella Dora; in ad essa una balconera con due paratoie mobili in ferro regolabili con catene controlla il livello del flusso dell’acqua in ingresso. In ultimo, il valore di «detti siti con fabbriche, aja, giardino e pertinenze» è stimato L. 13.940, mentre quello di «ordegni e mobili di detto edifizio e della quantità e qualità delle piante di detto giardino» ammonta a L. 2.260. L’estimo complessivo della proprietà è dunque di L. 16.200. (14)

Ora celtica Follone, Martinetto, Torino

Non sono emerse planimetrie della fabbrica dei panni del Vanderkerch ma qualche informazione possono fornirla i disegni dell'Ospizio celtico, il ricovero per donne ammalate di sifilide ottenuto dalla trasformazione della manifattura. La pianta in figura risale al 1844. In essa sono riconoscibili sia la forma ad L dell'edificio originario, e parzialmente la distribuzione dei vani, sia il disegno del giardino.

Fonte: ASCT, Atti Notarili 1844/35, p.94

Diritti d’acqua violati? Le Regie Patenti del 1720 ignorano e scavalcano i secolari diritti che la Città di Torino esercita sulle acque e sugli edifici idraulici all’interno dei propri confini. (15) Per voce della Municipalità stessa conosciamo i motivi che l’hanno indotta a rinunciare alle proprie ragioni; da un Ordinato del 1770 si apprende infatti che l’amministrazione comunale non ha voluto ignorare il beneficio creato dal follone a «vantaggioso trattenimento de poveri dell’Ospedale», considerando che, al tempo, il follone non pareva pregiudicare gli interessi della Città, poiché utilizzava dell’acqua che ricadeva nella Dora senza ulteriori impieghi. (16) Inoltre, essendo molto vicina al fiume, la presa dell’opificio non comprometteva il rilascio di eventuali future concessioni.

Il quadro però muta radicalmente nel 1728, quando «la Città [fece] formare con grave spesa la nuova bealera denominata Meana (link), ad effetto di così poter condurre dai predetti Molini del Martinetto sino a quelli di Dora tutta unita l’acqua di già estratta da esso Fiume con la Ficca Pelerina, ed inserviente pure a regi Edifizi, ad essi Molini tramedianti». (17) Ora le acque utilizzate dal follone Vanderkerch, scaricate senza possibilità di ricondurle al nuovo canale, vengono sottratte alla principale derivazione, al servizio dei molini della Città e dei grandi opifici cittadini. Nonostante il danno, la municipalità non ritiene opportuno contestare l’esistenza di un opificio dall’attività ormai consolidata e nato sotto la regia protezione.

La Città di Torino contro gli eredi Vanderkerch. La manifattura dei panni del Martinetto è condotta dai Vanderkerch per quasi cinquant’anni, si presume con successo, come le fortune familiari suggeriscono. Nell’aprile 1757 Cornelio muore passando la mano al figlio Giuseppe, che prosegue l’attività dello stabilimento fino al giugno 1770, quando a sua volta scompare. (18) A questo punto si apre una controversia tra la Città, decisa a recuperare l’acqua concessa al follone, e gli eredi Vanderkerch, che intendono includerle tra i beni ereditati e messi in vendita. La questione non è di poco conto. Secondo l’estimo dell’architetto Riccati il valore «dell’edifficio girante con la ragione di due ruote d’acqua, ordegni, e mobili in esso esistenti» risulta di 21.600 lire; e di sole 16.200 lire considerando invece «l’edificio senza ragione d’acqua, con gli ordegni e mobili fuori d’opera». (19)

GLI EREDI VANDERKERCH.

È probabile che non siano molti gli anni che separano Cornelio dal primogenito Giuseppe, che presumibilmente lo affianca nella gestione della fabbrica e al quale egli pare molto legato. Con esplicita volontà testamentaria del maggio 1754 il padre lo instituisce «erede particolare […] nell’usufrutto di sua eredità in compagnia dei suoi figlioli, e figlie, nati, e nascituri di legittimo matrimonio», nominando questi ultimi eredi universali «ognuno per egual parte e porzione», salvo quanto disposto per la consorte e le figlie. Tuttavia Cornelio ha forse motivo di supporre che il figlio Giuseppe possa morire senza successori diretti; nel qual caso designa sue eredi le figlie, «legittime e naturali», Brigida, Ludovica Cristina Carlota e i discendenti di Domenica Ottavia, già deceduta. È nominato esecutore testamentario il genero Giambattista Jacasselli, marito di Brigida. Nel giugno 1770 Giuseppe Vanderkerch muore celibe e senza «figlioli legittimi, o naturali», come ipotizzato dal padre. I beni del tessitore fiammingo passano quindi, in ragione di un terzo ciascuno, a quelli che d’ora in poi saranno indicati quali “eredi Vanderkerch”, ossia:

  • la nipote Teresa, coniugata con il banchiere Alessandro Fabre, figlia di Brigida, come si è detto, deceduta;

  • la figlia Lodovica Cristina Carlota, maritata con tal Carlo Bertelli;

  • Giacomo Giusto Giacinto Balli, notaio o procuratore, già sposato con la figlia Domenica Ottavia, in virtù della rinuncia all’eredità fatta a suo favore dalle figlie Francesca Giacinta e Rosalia, monache nel monastero di Andorno. (20)

La questione. la prima mossa della Città consiste in una «supplica rassegnata a S.M. perché si degni di ordinare che le acque accordate al sig. Vanderkirch della bealera del Martinetto per l’esercizio del suo follone e per la fabbrica delle coperte di lana debbano, stante la morte di esso, ritornare a benefizio dei molini della Città ed altri Regi edifizi». (21) Il documento oppone solide argomentazioni alla concessione del 1720 e su queste ne invoca la revoca. Esso si articola in tre punti: la difesa delle storiche prerogative d’acqua della Città, le violazioni dei titoli di concessione fatte dai Vanderkerch stessi, padre e figlio, e la dimostrazione dei gravi danni subiti. Per quanto concerne il primo punto, la supplica ribadisce la proprietà municipale della bealera del Martinetto, da cui deriva l’acqua del follone, che da sola renderebbe inefficace la concessione dei Vanderkerch. A tal proposito si citano le Patenti del 21 giugno 1475 e del 28 novembre 1528 «comprovanti l’albergamento de Molini ed ingegni, concesso alla Città con patto che il Sovrano, e qualunque altra persona, non potesse construere in detta Città, e sue fini, alcuni molini, ressie, battitori ed altri ingegni». Il secondo caposaldo del ricorso verte sul fermo del follone, da molto tempo inoperoso o quasi. Tralasciando la fabbricazione di panni e coperte, non è stato quindi assicurato il lavoro ai poveri dell’Ospedale di Carità, condizione che peraltro sia Cornelio che il figlio avevano disatteso già in passato. Si insiste parecchio su ciò, forse con enfasi e rigore un po’ eccessivi. La

Città considera fondante e vincolante la clausola di occupare obbligatoriamente tutti gli operai dell’Ospedale; la violazione farebbe quindi venir meno le condizioni per cui l’esercizio del follone e l’uso gratuito dell’acqua della bealera furono accordati a Cornelio Vanderkerch, diritti che non possono essere rivendicati dunque per legittima successione. In ultimo la Municipalità sostiene che il danno patito non deriva solo dalla minore quantità d’acqua a disposizione dei suoi molini e degli altri edifici idraulici cittadini, ma è aggravato dai mancati canoni che le sarebbero spettati per i diritti di privativa e bannalità esercitati su «tutti li voltaggi de suo territorio». Essa rammenta che l’autorizzazione originaria fu subordinata all’esplicito presupposto che non provocasse danno o pregiudizio a terzi, condizione venuta meno dopo il 1728 e che si riproporrebbe se il follone riprendesse l’attività.

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Il disegno mostra con chiarezza i termini della controversi tra gli eredi Vanderkerch e la Città: l'acqua utilizzata dal follone che, come quella dei molini, cadeva nella Dora senza ulteriori impieghi viene ora convogliata verso gli opifici di Valdocco e borgo Dora e quindi sottratta a usi assai remunerativi per le casse municipali. 

Fonte: ASCT, CS 2044 (particolare)

L'accordo. L’azione della Città si articola però lungo due direzioni. Per un verso dà mandato legale per convocare gli eredi in giudizio davanti al Senato, ma al contempo valuta l’acquisto del follone e incarica la Ragioneria di avviare un negoziato. Un primo tentativo di mediazione fallisce nell’estate 1770, poiché la municipalità si offre di acquistare il solo follone, mentre i nuovi proprietari intendono cedere il complesso senza scorporarne nessuna parte. La causa quindi prosegue. Le ragioni della Città sono note, mentre quelle degli eredi Vanderkerch si rifanno sostanzialmente all’efficacia delle Patenti del 1720, come si è visto confutate in modo puntuale dalla controparte, e alla considerazione che la loro efficacia non è stata mai impugnata in precedenza. Forse consapevoli della debolezza delle loro argomentazioni, essi si mostrano ancora disposti a trovare un accordo consensuale. Già nell’autunno riprendono le trattative. L’intesa di massima viene raggiunta entro l’anno, e la mediazione definitiva conclusa nei primi mesi dell’anno successivo. A fronte della richiesta iniziale di 18.000 lire, la proprietà accetta la controfferta di 15.000 lire formulata dalla Città, che a sua volta si dichiara ora disponibile all’acquisto dell’intero complesso. Definiti i dettagli e le formalità amministrative si redige l’atto di vendita il 12 marzo 1771. Con esso «i Signori Giusto Balli, Teresa Jacasselli Fabre e Luisa Vanderkreche Bertelli cedono all’Ill.ma Città di Torino […] tutti li siti, fabbriche del follone e manifattura de panni, tintorie, casamenta e giardino attiguo e loro adjacenze, con tutti li mobili, utensili, ordegni, ed ogni cosa in esse fabriche e siti esistente». Tra le clausole spicca la dichiarazione da parte degli alienatari di «non avere disposto, e contratto né per se né per altri in alcuna maniera di tutto o parte dell’acqua di detta Bealera; né permesso per alcuna parte la derivazione della medesima, tanto di quella decorrente per la bealera del Martinetto, quanto per la bealera che inserviva al detto follone». (22)

Lo smantellamento del follo-ne e la vendita della proprie-tà. Con la cessione si liquida ogni pendenza con gli Eredi Vanderkerch, che escono dunque di scena. Rapidamente si decidono i destini dell’impianto. Lo scopo dell’acquisto è stato rientrare in possesso dell’acqua utilizzata dallo stesso e già il 16 marzo successivo la Congregazione delibera lo smantellamento della bealera del follone, con l’ordine immediato di murarne l’imbocco e di riempirne l’alveo «per restituirlo alle coltivazioni». (23) Termina dunque in questo modo l’attività di uno dei primi stabilimenti industriali localizzati al Martinetto, peraltro dopo circa cinquant’anni di attività. Il Comune non ritiene di proprio interesse neppure mantenere la proprietà degli immobili e degli altri beni acquisiti e ne dispone quindi l’alienazione per pubblico incanto. Si delibera innanzitutto la cessione delle attrezzature e dei macchinari. Gli «ordegni diversi per la manifattura de panni e coperte di Catalogna» e quelli del follone sono valutati rispettivamente L. 380 e L. 620; i «vasi di stagno, rame, piombo ed altri mobili da tintoria» L. 1.260. Le attrezzature più difficili da trasportare, quali il follone e quelle per la lavorazione dalla lana, saranno vendute in loco, mentre i mobili della tintoria e gli altri strumenti verranno portati nel cortile del palazzo municipale. (24) Al fabbricato della manifattura e ai casamenti attigui, al cortile, al giardino e all’alveo della bealera è attribuito il valore di 13.940 lire. Prima di procedere alla cessione viene incaricata la Ragioneria di in-

Tiletto del 20 marzo 1771 con cui si notifica la vendita di «diversi Mobili, Effetti, ed Ordegni spettanti all’uso di folar panni, manifattura di lane, e di Tintoria». L’asta è convocata per il 20 marzo 1771. Non si ha notizia diretta dell’esito, ma proprio per questo motivo è ragionevole considerarlo positivo.

Fonte: ASCT, Scritture Private, 1771/32, p. 8.

Tiletto per la vendita all'incanto degli immobili degli eredi Vanderkerch convocata il 16 giugno 1771. La cessione comprende  «l’acqua solita per l’irrigazione del Giardino, e Siti adiacenti».

Fonte: ASCT, Scritture Private, 1771/32, p. 25.

tavolare le trattative per eliminare le servitù di passaggio e di adacquamento che gravano sul fondo.  (25) Sarà poi indetta l’asta pubblica per «esporre in vendita al pubblico […] la fabbrica nuda, e spogliata dei mobili, col giardino, e siti aggregati, con la spiegazione che nel caso l’acquisitore volesse destinare tal fabbrica ad uso di affaiteria la Città sarebbe disposta a concedere l’acqua necessaria», raccomandando comunque che la fornitura non dovrà recare pregiudizio agli «edifizi» inferiori e ai molini. (26)

Va da sé che tale acqua sarà sufficiente per le lavorazioni di concia ma non per la produzione di forza motrice. La vendita degli immobili e dei terreni della ex-proprietà Vanderkerch si rivelerà più complessa del previsto. Il pubblico incanto del 6 luglio va deserto; come pure la seconda convocazione del 27 dello stesso mese, nonostante il ribasso di 1.000 lire praticato sulla prima base d’asta di 11.000 lire. Cade nel vuoto anche una successiva offerta di affitto. Le operazioni sono quindi sospese in attesa di eventuali proposte di acquisto diretto. Una prima offerta del 28 agosto presentata da tal Giuseppe Franco Giuliano non è ritenuta congrua dalla Città. A questa ne seguono altre due nel dicembre successivo. Viene preferita quella dei signori Rocco Festa e Pietro Antonio Borione, che offrono 8.000 lire per la proprietà e l’acqua per l’irrigazione del giardino. La proposta formulata da Gioanni Giuseppe Allochis sarebbe stata più vantaggiosa, poiché ammontava a 9.000 lire, ma subordinata ad una concessione perpetua di 4 once d’acqua. (27

Ai fini della scelta è determinante la considerazione che la quantità d’acqua per l’irrigazione del giardino è irrilevante, o quasi, e in ogni caso i colaticci ricadrebbero nella bealera maestra. Quella richiesta da Allochis invece non solo non sarebbe restituita, ma risulterebbe idonea ad uso di forza motrice e si teme che in futuro possa dare adito a richieste di «concessione per la costruzione di qualche ruotaggio», (28) vanificando in questo modo l’acquisto dell’opificio Vanderkerch. La scelta della municipalità è comprensibile, tuttavia vale la pena di osservare che Allochis si dichiarava disposto a sottoporsi a esplicito vincolo contrattuale secondo cui «mai in qualunque tempo [avrebbe potuto valersi] di detta acqua per vero uno degli edifizi di presente tenuti posseduti dalla […] Città nella […] regione di Valdocca, e sulle acque della Dora nei contorni di questa Città cioè di folone, frize, molini, peste da canapa e ressiga da bosco», (29) vanificando in questo modo il lungo e faticoso acquisto dell’opificio appena concluso. La scelta della Municipalità è comprensibile, tuttavia vale la pena di osservare che l’Allochis si dichiarava disposto a sottoporsi ad esplicito vincolo contrattuale secondo cui «mai in qualunque tempo [avrebbe potuto valersi] di detta acqua per vero uno degli edifizi di presente tenuti posseduti dalla […] Città nella […] regione di Valdocca, e sulle acque della Dora nei contorni di questa Città cioè di folone, frize, molini, peste da canapa e ressiga da bosco». (30)

L’Opera celtica. Si può presumere che i nuovi proprietari abbiano acquistato l’ex manifattura per frazionarla e adibirla almeno in parte, all’affitto. Al Martinetto crescevano il numero degli opifici e degli operai; Torino rimaneva lontana e molti cercavano alloggio in loco per risparmiare lunghi percorsi quotidiani a piedi per raggiungere il luogo di lavoro. L’operazione si rivelerà però un affare ben più redditizio.

 

Vittorio Amedeo III è salito da poco al trono. Il Sovrano è un uomo colto e aperto al nuovo ben più del padre, e a lui si deve l'istituzione di un ricovero per «donne di mala vita» e «pubbliche meretrici» affette da sifilide, allora definita “mal francese” o “morbo celtico”. Nasce così l’idea dell’Opera celtica, o Ospizio celtico, rivolto alle «donne cadute... Le quali, per essere la loro onestà o troppo mal custodita o dalla povertà combattuta, con pubblico scandalo servono d'inciampo agli abitanti di questa capitale». L'istituzione, tuttavia, non dovrà essere soltanto un luogo detenzione e di cura, ma un ritiro in cui, sul modello di quello destinato a poveri oziosi e vagabondi, si persegua la rieducazione materiale e morale delle ricoverate, affinché «assistite ed istrutte da Direttori spirituali, si ravvedano e curate dalle corporali infezioni siano in grado di occuparsi in qualche utile lavoro, ed appigliarsi ad una cristiana ed onesta vita». (31) Il sovrano giudica la casa già Vanderkerch al Martinetto il luogo più idoneo per il sifilocomio. Ritiene inoltre che, trattandosi di un’opera pubblica di assistenza alla povertà, il Comune debba contribuirvi con il riacquisto dell’immobile ceduto cinque anni prima, provvedendo anche agli arredi, alle cure mediche, al mantenimento e alla custodia delle ricoverate. Per contro sarà onere della Corona la manutenzione dell’edificio. (32) Una nuova perizia dell’architetto Paolo Rocca stima il valore del complesso in L. 12.100. La proprietà inizialmente chiede L. 12.500 lire, in virtù dei «lavori attorno a detta casa per ridurla in stato al fine a cui si è destinata», (34) ma accettano poi il prezzo d’estimo. L’accordo è approvato dalla Congregazione nella seduta del 14 maggio e il 18 successivo viene formalizzato con l’istrumento di «Retrovendita delli sigg. Rocco Festa e Pietro Borione di una casa in Valdocca a favore dell’Ill.ma Città di Torino». (33) ma accettano poi il prezzo d’estimo. L’accordo è approvato dalla Congregazione nella seduta del 14 maggio, e il 18 successivo viene formalizzato con l’istrumento di «Retrovendita delli sigg. Rocco Festa e Pietro Borione di una casa in Valdocca a favore dell’Ill.ma Città di Torino». (34)

1831 - Opera celtica (Ospizio celtico) Valdocco Torino

La carta in figura risale al 1831. L'ospizio celtico risulta sensibilmente ingrandito e nuovi padiglioni  sono  stati aggiunti all'edificio dell'ex manifattura. Seppure si tratti  di un luogo di cura, la condizione sociale e morale delle ricoverate al tempo probabilmente giustificava la posizione prossima alla Dora, in una zona umida, dove l'aria è ammorbata dall'attività delle molte concerie. Si notino i numerosi, ed immancabili, canaletti destinati all'irrigazione di orti e giardini all'interno del complesso.

Fonte:  AST, Sezioni Riunite, Carte topografiche e disegni, Camerale Piemonte, Tipi articolo 663, Torino, m. 350

Non è dato sapere se l’acquisto del 1771 debba essere attribuito alla buona sorte, a una felice intuizione o a un’imbeccata, ma per gli acquirenti ha rappresentato di sicuro un ottimo investimento. Essi infatti con la «retrovendita» lucrano ben il 50% di quanto sborsato cinque anni prima, peraltro effettivamente versato solo in parte. Il guadagno è stato consistente, ma l’estimo dell’edificio ha considerato anche le numerose riparazioni effettuate e la ristrutturazione generale del fabbricato, inclusa la sistemazione di orto e giardino, nonché i lavori necessari per ricavare un maggior numero di stanze dai locali dell’ex manifattura, valutando infine anche gli introiti degli affitti. (35)

In seguito ancoea l'edificio riacquistò l'antica funzione produttiva: fu trasformato in una filanda quando l'Opera celtica fu trasferita all'Ergastolo, l'istituto in cui erano detenuti i cosiddetti «giovani discoli», in zona Nizza-S. Salvario, che occupava il sedime dell'odierno liceo Alfieri.

Un caso analogo è rappresentato dalla concessione per una fabbrica di panni in lana rilasciata ad un altro fabbricante olandese, Jan Paul, dotata anche di tintoria e follone alla Molinetta. Si vedano in proposito le schede: Memoriale a capi per una fabbrica di panni e Il molino della Molinetta (1a parte)

note
NOTE
  1. ASCT, Atti Notarili, 1771/144, p. 14.

  2. Il “memoriale a capi” è un documento costituito da un preambolo, seguito da una lista di richieste, dette appunto “capi”, valutate una per una, eventualmente modificate, approvate e rese esecutive dal sovrano. La struttura della fonte mette bene in evidenza la dialettica tra la Corona e l’imprenditore fiammingo, nonché la benevolenza dimostrata dalla stessa nei confronti suoi e della sua iniziativa. Cfr. AST, Sezioni Riunite, Controllo Generale di Finanze, Patenti e biglietti poi Patenti, mazzo 2, p. 13, Concessione di Privileggi a Cornelio Vanderkrec per una manifattura da panni. Tutte le citazioni che seguono vanno ricondotte a tale fonte.

  3. L’Ospizio, o Ospedale, di Carità accoglieva gli indigenti della città. Si trovava in via Po 31, nel cosiddetto “Palazzo degli Stemmi”, ora utilizzato dall’Università di Torino. I ricoverati erano impegnati in varie attività, tra cui la manifattura di tappeti, tessuti e merletti. Cfr. MuseoTorino e Detenzioni.eu.

  4. Occorre ricordare che dal 1713, in seguito al Trattato di Utrecht, il Ducato di Savoia è assunto al rango di Regno, inizialmente di Sicilia e in seguito di Sardegna. I “nuovi paesi” a cui si riferisce il sovrano appartengono alla prima.

  5. Nello stesso periodo il sovrano accordò sostegno e protezione ad altre iniziative industriali innovative, le cui Patenti sono contenute in F. A. Duboin, Raccolta per ordine di materie delle leggi, editti, manifesti, ecc., pubblicati dal principio dell’anno 1681 sino agli 8 dicembre 1798 sotto il felicissimo dominio della Real Casa di Savoia per servire di continuazione a quella del senatore Borelli, vol. XVIII, t. XVI, Luigi Arnaldi, Torino 1849. Tra queste iniziative l’edificazione di follone da panni e tintoria alla Molinetta (1721) ed un altro impianto, sempre per la follatura di panni in lana, al Martinetto per iniziativa di tal Biaggio Nigri (1724). Per la politica economica sabauda nel corso del XVIII secolo si veda anche il saggio di Giuseppe Chicco, La politica economica statale e i «banchieri-negozianti» nel Settecento, in Storia di Torino Einaudi, vol. 5, pag. 152 e soprattutto pag. 163 e segg.

  6. Ad esempio nel 1756 Carlo Emanuele III terrà un atteggiamento quasi identico nei confronti di Giò Giorgio Braun, mastro conciatore wuttemburghese, chiamato a Torino per creare, sempre al Martinetto, una manifattura specializzata nella lavorazione della pelle di bufalo destinata a forniture militari per la cavalleria.

  7. La lettura del memoriale pare suggerire che la nuova manifattura abbia caratteristiche innovative per quanto concerne sia i prodotti, sia le lavorazioni, sia la tecnologia del follone stesso, anche se l’insieme della documentazione reperita non permette di specificare, e nemmeno di corroborare troppo, tale ipotesi. In ogni caso l’obbligo della follatura in conto terzi mette a disposizione dell’intero sistema una risorsa produttiva privata finanziata dal sovrano. 7a. Cfr. P. GribaudiSui fattori geografici dello sviluppo industriale di Torino, rivista Torino, n° 4, anno 1933, p. 27.

  8. Cfr. ASCT, CS 4031, 21 novembre 1720 – Istrumento di vendita, rogato Mercandino, di permuta fatta Monsignor Morozzo Vescovo di Saluzzo ed il sig. Vanderkric d’una pezza di prato propria della Commenda di Monsignore con la pezza di prato di pari valore che detto sig. Vanderkric ha acquistato dal sig. Collo e ciò fu fatto da Monsignor Morozzo per abilitare quest’ultimo a fabbricarvi la fabbrica di un follone da panni.

  9. Ibidem

  10. ASCT, Atti Notarili, 1771/144, p. 24.

  11. ASCT, Scritture Private, 1776/35, p. 140.

  12. Cfr. note 10 e 11.

  13. ASCT, Atti Notarili, 1771/144, p. 26.

  14. Ibidem.

  15. Il memoriale a capi di Cornelio Vanderkerch, ormai recepito dalle Regie Patenti, viene presentato alla Congregazione del 24 ottobre 1720, che incarica gli ufficiali della Ragioneria di prendere notizie necessarie circa eventuali pregiudizi creati dal follone e di riferire poi alla Congregazione stessa; tuttavia le ricerche condotte in seguito dalla Ragioneria (1770) non hanno trovato traccia della relazione (ASCT, Ragionerie, 1770/3, p. 144).

  16. ASCT, Ordinati, 24 luglio 1770, p. 58v.

  17. Ibidem.

  18. ASCT, Atti Notarili, 1771/144, p. 14. Forse per vecchiaia o malattia di Giuseppe Vanderkerch, forse per difficoltà economiche sopraggiunte, il follone pare in realtà inattivo, o quasi, da tempo: da due anni secondo gli eredi Vanderkerch, da ben dieci anni a parere della Città, per la quale l’imprenditore non attendeva nemmeno più alla fabbricazione di panni e coperte (ASCT, Ordinati, 24 luglio 1770, p. 58v; Atti Notarili, 1771/144).

  19. Nella fattispecie all’immobile è attribuito il valore di 13.940 lire, e agli arredi e ai macchinari di 2.260 lire. Infine «In istato di semplice fabbrica, senza ragioni d’acqua, senza gli ordegni e mobili» il valore della proprietà si riduce a 6.950 lire. In quest’ultimo caso si scontano le spese necessarie per ristrutturare un fabbricato che pare essere da tempo inutilizzato, nonché per eliminare le strutture murarie funzionali alla produzione industriale ed elevare pareti e modificare le planimetrie interne per rendere i locali idonei all’affitto (ASCT, Scritture Private, 1771/32, p. 80).

  20. ASCT, Atti Notarili, 1771/144, p. 14.

  21. ASCT, CS 2026; per le argomentazioni seguenti cfr. anche ASCT, Atti Notarili, 1771/144, p. 14.

  22. Ibidem. Per i dettagli delle vicende relative all’accordo cfr. ASCT, Ragionerie, 1770/3; 1771/4.

  23. ASCT, Ordinati, 16 marzo 1771, p. 15.

  24. Ibidem.

  25. La Ragioneria trova in breve l’accordo per eliminare il diritto di passare davanti alla fabbrica di cui gode un certo signor Bojone per raggiungere un prato confinante a settentrione con la proprietà. L’intesa prevede una permuta di terreni di cui si tralasciano in questa sede i dettagli. Inoltre la Città si impegna a formare un fosso lungo la bealera del Martinetto per irrigare il prato del signor Bojone, in sostituzione del bochetto annullato con l’interramento della bealera del follone. A margine del documento si apprende che in data 30 aprile tale bealera era ormai scomparsa. La questione è formalizzata con istrumenti del 18 e 29 maggio 1771 (ibidem).

  26. Ibidem.

  27. ASCT, Scritture Private, 1771/32, pp. 78-79. I documenti consultati non forniscono molte informazioni circa i due acquirenti. Di Rocco Festa sappiamo che è il figlio emancipato di Giuseppe Bartolomeo della città di Asti, in virtù dell’atto del 30 dicembre 1756. Pietro Antonio Borione (talora Borrione) proviene invece dal biellese ed è figlio del fu Giovanni Battista «del luogo di Graglia» (ASCT, Atti Notarili, 1776/144, p. 156).

  28. ASCT, Atti Notarili, 1771/144, p. 135.

  29. ASCT, Scritture Private, 1771/32, p. 78.

  30. ASCT, Atti Notarili, 1771/144, p. 135.

  31. G. Ricuperati, L. Prestia, Lo specchio degli ordinati. La città e lo Stato dal tempo di Vittorio Amedeo III alla crisi definitiva dell’«Ancien Régime», in Storia di Torino, vol. 5, Einaudi, Torino 2002, p. 489, nota 22: la citazione è tratta dalla Congregazione del 14 giugno 1776, c. 53. Per le malattie di origine sessuale curate nella struttura cfr. il pamphlet di ordine medico G. C. Fenoglio, Breve cenno sopra l'Ospizio Celtico di Torino detto il Martinetto, sopra le malattie, che ivi regnano, e breve esposizione de’ diversi metodi impiegati con successo negli anni 1821-22-23, s.e., Torino 1823.

  32. ASCT, Ragionerie, 1776/9, n. 21, 11 maggio 1776, p. 84.

  33. ASCT, Scritture Private. 1776/35, p. 138.

  34. ASCT, Atti Notarili, 1776/144, p. 156.

  35. ASCT, Scritture Private. 1776/35, p. 138.

Ultimo aggiornamento della pagina: 20/09/2022

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